martedì 20 novembre 2007

Libro: Mal di merito, di G. Floris - Rizzoli, Gen 2007 - Anobii

In Italia, il pezzo di carta più utile non è un titolo di studio, ma una lettera di raccomandazione. La prevalenza della spintarella non è folklore o semplice malcostume: soffoca la meritocrazia, blocca la mobilità sociale e dà fuoco alle polveri della guerra tra generazioni. Tra inchiesta, denuncia e resoconto di vita vissuta (e lavorata), questo nuovo libro di Giovanni Floris non risparmia le stoccate polemiche: contro la generazione del '68, ex rivoluzionari bravissimi a occupare posizioni di potere e a non mollarlo più; contro il mito dell'efficienza del settore privato (che in realtà è stagnante quanto quello pubblico); contro la sinistra stessa, incapace di comprendere che il ritorno della meritocrazia dovrebbe essere la chiave della sua azione politica. Per impedire che chi nasce ricco continui ad arricchirsi, mentre i poveri muoiono poveri.

lunedì 19 novembre 2007

(Ri)Pensare il marketing nelle PMI: strategia e tattica

[Reblog dal blog di Marketing Agora']

Rispondo qui ad alcuni spunti di PierLuca Santoro, ricucendoli. Uno quando segnala il caso di coalition marketing al Centro Commerciale Le Torrette (BG). L'altro quando cita Lorenzo Biscontin, che, specie dopo aver sentito Kotler a Milano, ripensa l'Ufficio Marketing dopo che in questi anni ha avuto sempre meno valore strategico ed e' stato concentrato/disperso sulla tattica (almeno un 20% di strategia, consiglia Kotler, evidentemente siamo molto sotto). Li', PierLuca si sofferma soprattutto sull'aspetto organizzativo. Un altro ancora quando rimanda alle ultime dichiarazioni di Levy, CEO di Publicis, tra le quali, riferendosi agli scarsi risultati di Facebook in termini di ricavi da pubblicita', c'e' anche "Io non sono sicuro che noi abbiamo trovato il modo migliore per comunicare con questi utenti".

Concordo con PierLuca sulla necessita' di "allineare" il business e la sua immagine sul mercato, e che nel web2.0 questo sia sempre piu' urgente. Anzi aggiungo: se il web2.0 e' solo il modo per trasferire questa immagine al mercato, allora il web2.0 fa parte della tattica. Se invece l'azienda si ristruttura in funzione della relazione col cliente, impostata stile web2.0, allora il web2.0 fa parte della strategia.

In entrambi i casi, il fatto che le PMI italiane non abbiano una vera organizzazione (verissimo) non mi sembra pertinente. Non vedo un problema di dimensione.
In una PMI servirebbe (1) una maggiore sensibilita' da parte dell'imprenditore a questi temi (e quindi la decisione di adottare l'approccio web2.0 almeno nella tattica se non nella strategia), e (2) una maggiore padronanza del linguaggio necessario per rivolgersi all'esterno dell'azienda da parte del responsabile commerciale. Ne seguirebbe cosi' un migliore coordinamento tra imprenditore (azienda) e responsabile commerciale (comunicazione verso il mercato), anche in un'azienda "micro" con meno di 10 dipendenti.

Il consorzio di imprese indirizza in parte il gap di cui sopra. Infatti e' vero che puo' garantire un responsabile marketing commerciale in outsourcing, e quindi a costo condiviso, ma bisogna vedere di che tipo di consorzio stiamo parlando. I distretti infatti non sono certo una novita': quelli sono mono-settore, spesso organizzati in filiera: [edit 20/11 15:00] il marketing di chi sta nel mezzo della filiera e' molto diverso da quello necessario per chi ha di fronte l'utente finale. L'esempio del Centro Torrette, invece, [edit 20/11 15:00] e' un consorzio tra negozi, siamo quindi nel retail, e qui il servizio marketing commerciale e' in realta' un "servizio del gestore della rete di vendita". Se poi la rete e' gestita da una "coalizione" invece che da un big player, non per questo quel tipo di marketing risulta diverso da quello tradizionale. [edit 20/11 15:00] Si possono pero' trovare migliori esempi di "coalition marketing" in cui aziende produttrici si consorziano dando vita ad una comune Agenzia marketing commerciale, grazie alla quale affrontare compatti mercati internazionali (soprattutto) con un budget condiviso.

Verrebbe comunque indirizzato cosi' solo il punto 2 di cui sopra, non necessariamente in "modo non convenzionale", e anche se fosse, il web2.0 sarebbe usato come strumento tattico (niente di quel 20% di strategia, che Kotler raccomanda).

La maggior sensibilita' del piccolo imprenditore rimane il punto piu' cruciale. Certamente c'e' un problema di informazione: spesso non sa nemmeno che esiste il web2.0. Sa che esiste un marketing tradizionale (1.0), i cui costi non sono alla sua portata, e i cui risultati sono spesso discutibili: quindi pensa, perche' un eventuale web2.0 dovrebbe essere piu' interessante ?

Ma se alle sue orecchie fini non arriva la voce che il web2.0 funziona, e in particolare per le PMI, e' perche' la "voce" che gira e' un'altra, come ha dichiarato Levy, appunto. (Il quale probabilmente ha qualche motivo per gettare acqua fredda sulla corsa del web2.0). Ne ho conosciuto molti che hanno gia' capito quello che Dave Winer ha profetizzato, parlando di OpenSocial: "la “pubblicita’ e’ destinata ad essere ricondotta a informazione, niente di piu'".

La questione quindi e' quando un approccio 2.0 al mercato sara' veramente strategico per la PMI. Se pensiamo che sia gia' oggi, bisogna dimostrarlo: ci vogliono esempi e numeri. Il piccolo imprenditore non ha budget per "atti di fede", in un campo cosi' lontano da quello che gli e' consueto.

Da "business network" a "collaborative network"

Trascrivo qui il mio contributo al network Marketing Agora', che sta riflettendo su come proseguire dopo la "partenza". Un momento delicato in cui si sta passando (cercando di) da "business network" a "collaborative network". Piccoli "ecosistemi di conoscenza" crescono...

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Carissimo PierLuca e voi tutti di MA,

non posso mancare a questo importante checkpoint, e cerchero' di dire il mio punto di vista con qualche farcitura di considerazioni piu' generali. Tra l'altro, ho tradotto la domanda "quali aspettative ?" in una serie di domande che a mio avviso la sottointendono.

- qual'e' la natura fondamentale di MA?

MA e' un business network di professionisti e osservatori che hanno in comune l'attenzione sul tema del marketing "non convenzionale" (2.0), in Italia

- la natura fondamentale di MA, e' sufficiente a caratterizzare la sua "azione" e a differenziarlo da iniziative simili ?

in parte si, in parte no.
Da una parte, da un business network (cosi' come da un social network), prima di tutto, ci si aspetta che permetta di "fare network". In molti casi il valore e' gia' nel presentarsi ad un gruppo di pari, o di cointeressati (stakeholder), e nell'avere occasione/pretesto per entrare in contatto, ed arrivare a trattare qualunque argomento di interesse comune, a qualunque livello di approfondimento (dalla battuta al trattato in piu' tomi). Io per esempio non avrei avuto occasione di entrare in maggiore "neighbourliness" con alcuni di voi, altrimenti, e vedo gia' in questo un "piccolo" motivo di soddisfazione, che forse tanto piccolo non e'. Ad alcuni (non a me) questa dimensione e' gia' sufficiente: qualche link in piu' al proprio sito, qualche iscritto in piu' nella lista dei propri contatti.

Dall'altra parte, occasioni di questo tipo sono oggi sempre piu' a portata di mano, e quindi diventa urgente (a) differenziare e (b) finalizzare. A differenziare, lo dico subito, ci pensano le persone stesse, con il proprio approccio, metodo, stile. Per finalizzare servono un obiettivo, una strategia, un piano di azione, collavoratori e, ultimo ma non meno importante, destinatari. Siamo tutti d'accordo che a questo punto i passi diventano pesanti, che il metodo non e' chiaro (non e' una startup, non e' un progetto nel senso tradizionale, non e' un'associazione di categoria, ...), e che il network rischia di dividersi piu' che di unirsi, o di entrare in stallo. Qui io vedo molto positivo gia' il fatto che si "sperimenti" un passo avanti rispetto al business networking "di base". Tra le mie aspettative c'e' senz'altro quella di partecipare ad un business network che vuole "collavorare", e non solo fare "linking" e "commenting". Infatti mi sono iscritto nel gruppo Organizzazione.

- siamo quindi tutti d'accordo che MA si sforzi di essere un "collaborative network", e come uscire dall'empasse "facciamo che facciamo" ?

Per calare l'idea di un "collaborative network" nell'ambito del marketing, alcune preziose dritte sono gia' state date dall'Illuminato (PL) e altri:
- contesto italiano (dimensioni, linguaggi, culture, mercati, ...)
- produzione di contenuti "dal basso" (libro multi autore, evento di presentazione, ...)
- approccio empirico (case studies piu' che teoria)

Io sottoscrivo tutto questo. L'unica osservazione qui, e' che per generare contenuti "significativi" e' bene che provengano dal "campo".
Da questo due conseguenze. Chi non ha troppa esperienza dovrebbe avere l'occasione di un "learning on the job". Chi ne ha, probabilmente non vuole condividere quella precedente, che per il network e' utile fino ad un certo punto, ma e' probabilmente disponibile ad applicarla in nuovi contesti.
Quindi la proposta: i case study potrebbero essere di due tipi (I) case study "esterni", cioe' gia' disponibili e "ragionati" all'interno del network, sotto i diversi punti di vista rappresentati al suo interno, (II) nuovi case study che rendicontano esperienze dirette del network ("interni").
Auspico tra l'altro che i referenti dei case study "esterni" siano coinvolti nel network: anche se non saranno disponibili ad analizzare criticamente la propria esperienza (ma non e' detto), quelli sono tra i piu' interessanti partecipanti al network, e certamente potranno riferire di altri casi a cui essi stessi si erano precedentemente ispirati.

Trovo quindi giusto "contarci" su questo, perche' NON tutti quelli che aderiscono al business network, aderiscono anche al collaborative network. Ma fino ad un certo punto. Infatti non tutti coloro che aderiscono poi partecipano, e il conteggio e' significativo solo in parte.

Come qualcuno ha fatto gia' notare la percentuale degli "attivi" tra i "membri" di un network e' molto bassa. Credo quindi che, soprattutto nella fase iniziale, sia importante "crescere" quantitativamente (facendo marketing e comunicazione (2.0) a favore di MA, e quindi proselitismo) e qualitativamente (con iniziative che "attirano" piu' facilmente l'attenzione di chi poi probabilmente "contribuira'" al network, e che consolidano le "relazioni" all'interno del network).

Per ora, passo e chiudo.
-Gino



giovedì 15 novembre 2007

Tumblr: fiducia data troppo presto

Ci sono varie ragioni che mi hanno convinto ad abbandonare Tumblr. Naturalmente, la scelta fatta 3 mesi fa aveva un suo perche', e ora dovro' definire un piano di cambiamento.

Innanzi, tutto perche' l'avevo scelto ?

1) ci sono momenti in cui ho poco tempo per partecipare al web2.0 con contenuti autoprodotti, cio' nonostante anche in quei momenti navigo non poco, e mi segno link per me interessanti. Ebbene anche questa attivita' e' espressione di me, e quindi perche' non includerla nella mia webpage ? considerate che avevo chiuso un anno prima un blog datato 4 anni, proprio perche' non sopportavo (e non volevo commettere l'errore) di non poterlo gestire al meglio. Dunque mi serviva un aggregatore personale

2) Facebook mi aggrega molto bene i mille aspetti della mia presenza online, e altrettanto da parte dei miei "amici" (infatti non bisogna dimenticare che mette in contatto con 47 milioni di utenti), ma Facebook e' chiuso, e non tutti i miei "amici" sono registrati, ne' io voglio infastidirli invitandoli a farlo.

3) Tumblr e' veramente molto semplice, e dovendo io ripartire da zero vedevo questo aspetto estremamente positivo. Tumblr ha una presentazione molto semplice e permette di visualizzare il mashup come fosse un blog, e questo e' un ottimo motivo per chi non ha tempo per aprire un blog e vuole fare per lo piu' reblogging

4) Jaiku, unica alternativa considerata, ha un layout di tipo strumentale ("serve" al gestore), mentre appunto io cercavo un layout di "presentazione" (che fosse "per" il lettore)

Fatta questa scelta, avevo aperto anche un blog su Blogger giusto per aver un repository di miei post, da aggiungere a Tumblr, che comunque doveva rimanere il mio principale strumento di presenza sul web. Per il blog, nessuna carrozzeria, solo telaio e motore.

Tempo per allestire tutto questo: pochi minuti.

Quando e' iniziato il declino di Tumblr ai miei occhi ?

Da un lato per ragioni tecniche:
- l'assistenza e' scarsa (le mail allo staff non ricevono alcuna risposta)
- alcune instabilita' nel codice (due diversi tumblelog avevano comortamenti diversi, i feed venivano importati con tempistiche imprevedibili, ...)
- l'arrivo della nuova versione, ha introdotto 400 novita' ma onestamente non interessanti per me (il theme editor che mi e' piaciuto meno di quello disponibile prima, i "canali" ovvero un'apertura al social poco intuitiva, estensioni multimediali quelle si utili ma limitate quantitativamente, archivi indispensabili effettivamente inseriti con un semplice link...)
- [edit: 16/11/07 8:20] alcune limitazioni funzionali che io considero gravi e che rimangono anche dopo l'upgrade: il numero di feed importabili e' stato limitato a 5 (cosa gravissima per un aggregatore), le modalita' di import dei feed sono meno elastiche di prima, di commenti ancora non se ne parla, e ultimo ma non meno importante l'indicizzazione delle pagine generate da Tumblr e' poco controllabile e risulta insufficiente.

Da un altro lato ragioni organizzative: e' stata costituita la Tumblr Inc. e le persone che si occupano di Tumblr da qui in poi dovranno scontare una fase di cambiamenti, con nuovi equilibri e qualche defezione.

Infine ragioni di "vision": la nuova versione (major release n. 3) non ha cambiato la sostanza di Tumblr, ne' ha colmato gap importanti. E' e rimane "poco social", "poco blog", e come aggegatore e' limitato.

Con queste limitazioni, fare a meno di Tumblr diventa troppo facile. Il mio stesso blog in Blogger potrebbe gia' rispondere (opportunamente potenziato) alla maggior parte dei compiti che avevo affidato al mio tumblelog. E non certo al prezzo di una maggiore complessita' di utilizzo, anzi. [edit: 16/11/07 8:20] Con qualche tocco da barbiere di siviglia gli ho rifatto subito il look, e aggiunto un po' di orpelli.

Probabilmente lo terro' come "aggregatore intermedio", sfruttando la possibilita' di creare un feed da piu' feed. Ci penso ancora un po'.

martedì 13 novembre 2007

Cena dei Blogger Veneti - primi commenti

Il Club dei Blogger dal Veneto (ning, ggroup, wiki) si e' costituito da un paio di mesi, ed e gia' alla seconda cena ufficiale. Si tratta certamente di un gruppo piuttosto diversificato al proprio interno, e quindi rappresentativo a 360 gradi di quanta parte della societa' civile oggi partecipa e condivide su internet.

Alla ricerca di un'identita' e di una modalita' operativa, si e' subito acceso nel Club un interessante dibattito sull'utilizzo del web come strumento di facilitazione nello sviluppo di comunita' locali (in ottica Learning Village, ma anche di ricostruzione di una socialita' compromessa ovvero "Pro Loco"), di cui Luigi e' il principale fautore. La cena avrebbe dovuto dare fiato a riflessioni e contributi sul tema, ma le bocche erano troppo occupate a gustare la cucina del Nottambulo, a Mestre. Le foto qui.

Considerata la tenera eta' del circolo, l'occasione di conoscersi dal vivo e incominciare i primi scambi di battute, e' stato comunque un risultato che ha soddisfatto tutti. Erano presenti (ordine dei posti a tavola): Luigi (e consorte), Gigi (aka Webeconoscenza, e famiglia), Luca (aka Vibes), Davide (aka D4rKr0W), Gino (aka Knowledge Ecosystem), Filippo (aka Phil e Creative Landscape), Vincenzo (aka Kokopelli, e morosa), Natascia (aka Formanuova), Matteo, PierLuca (aka MarketingBlog, e consorte), Luca (aka Blublog), Andrea (aka Cips, e figlio), e Mattis.

Qualche spunto che ho raccolto durante la cena, e nei commenti che sono seguiti online: creativita' e tecnologia in musica, teatro impresa, utilizzo di strumenti web2.0 (vedi FB), iniziative di innovazione culturale (vedi MZ), inziative di alfabetizzazione per PMI in materia di marketing non convenzionale (vedi MA), capacita' di adattamento del sistema editoriale italiano alla corsa del citizen journalism, produttivita' e cazzeggio nelle riunioni del club, modalita' organizzative piu' adatte allo sviluppo dei temi proposti.

Certamente nulla e' stato approfondito. Anzi, io riporto qui giusto qualche cenno per dimostrare piu' che altro la vivacita' della conversazione e il potenziale del gruppo. Ma, per me, la cosa piu' importante e' stato guardare negli occhi, sentire la voce, vedere i gesti: insomma le persone innanzi tutto. In questa fase la tecnologia (eravamo innanzitutto blogger, nonostante la ritrattazione di Gianni) e le idee progettuali sono solo un viatico perche' le persone inizino una "conoscenza" e una "relazione" (una esperienza). Quanto tempo ci vuole ? (PierLuca e Luigi, con obiettivi diversi, sono ansiosi.) Dipende dalle persone, e vi assicuro che il veneto normalmente ce ne mette un po' di piu'.

Per fare in modo che il tempo sia breve, e che questo incontro sia fertile, dovrebbe seguire un vivace dibattito nel luogo virtuale che il Club si e' scelto (il ning o il ggroup), o almeno disperso e interlinkato nei diversi blog. Purtroppo poco e' stato inserito nei luoghi virtuali comuni nei successivi 3 giorni, finora, e i commenti nei blog sono ancora timidi (qui, qui, qui, qui e qui). Unica eccezione qui.

Seguiranno aggiornamenti.

domenica 11 novembre 2007

Cos'e' OpenSocial ?


Da qualche anno si sta diffondendo un nuovo modo di sviluppare servizi sul web che ha l'obiettivo di renderli modulari, aderenti a standard, e quindi facilmente componibili ed eventualmente sostituibili (interoperabili). Si parla di Service Oriented Architecture (SOA).
Questa architettura prevede che i dati siano separati dalle applicazioni, e le applicazioni (agenti) rispondano alle interazioni esterne attraverso interfacce standard, e in particolare le interfacce devono essere in grado di riconoscere comandi di tipo descrittivo, e non istruttivo (il comando deve cioe' dire solo cosa fare e non come farlo).
Cosi' le stesse azioni possono essere richieste nello stesso modo, a qualunque agente (applicazione), che quindi risulta facilmente sostituibile.
OpenSocial e' un primo passo nella definizione di servizi di social network aderenti a questo approccio.
Tra i social network che aderiranno a questo standard (e quindi saranno in grado di interagire sulla base del protocollo OpenSocial) si potranno quindi estrarre e inserire (oltre ai contenuti pubblicati che gia' oggi si maneggiano via feed rss) anche liste di utenti sottoscrittori e liste di oggetti a cui gli utenti hanno sottoscritto.
Si dovrebbe arrivare ad un punto in cui si possa prendere, ad esempio e solo se le applicazioni aderiscono allo standard, da Anobii la gestione degli scaffali, da Twitter la gestione dei twit, da Delicious la gestione dei bookmark e da Flickr la gestione delle foto, da Facebook qualche divertente test di compatibilita' dei profili, e realizzare un unico socialnetwork che permette agli iscritti ad un gruppo di Anobii di twittare e raccogliere link e foto, e verificare la propria "vicinanza" (di lettori) con qualche test sulla personalita'.

sabato 10 novembre 2007

L'era della pubblicita' al tramonto

Dave Winer, particolarmente critico su Google e Facebook, profettizza il loro declino insieme all'era della pubblicita':

Long-term, however they both have problems because advertising is on its way to being obsolete. Facebook is just another step along the path. Advertising will get more and more targeted until it disappears, because perfectly targeted advertising is just information. And that's good!

Una pubblicita' sempre piu' targetizzata, dice, diventa semplicemente informazione.

Web2.0: who is the paying customer ?

Discussing about Facebook strategy, a question rises: In the web2.0, who is the paying customer ?

If only companies are available to give money for visibility, every business model will be a new version of the same advertising sale revenue stream, in spite of the disruptive innovation of the underlying web2.0 techno-social application.

There's somebody interested in paying for advanced services, so also the "basic for free, advanced for fee" schema is viable. But
- those people seem to be not so many
- there's a roof limiting that profit space: people love (and need) *simplicity*
- services are/are going to be available "open"

And what about people who whishes to make a donation ? RadioHead are testing a sort of this gift economy, but we know that opensource firms and professionals are not living by this. We know also, historically speaking, gift economy is "reciprocal" and consequently used between "peers".

Are we really surprised if Facebook is planning to make profit on its magic numbers selling adv again ? Have we to appreciate the new in how adv will be sold, more ?

Sempre di vendita di pubblicita' si tratta...

Mario mi chiede una strategia "giusta" per facebook. Se la sapessi..., comunque rispondo cosi'.

Ogni volta che vedo questi nuovi modelli di business (web2.0, opensource, ...) che ritornano al vecchio schema "raccolgo traffico, vendo traffico" mi cadono un po' le braccia.

Oltre a questo, certamente considero un boomerang lo schema "raccolgo dati degli utenti, e poi li vendo". Ma all'ultimo Web 2.0 Summit in San Francisco, il CEO di FB ha annunciato pero' che ci sara' un cambio di rotta verso la portabilita' dei dati degli utenti, e che i dati venduti agli advertisers sono spersonalizzati.

Anche se FB avesse scelto l'altro schema "fornisco servizio base free, vendo servizio avanzato", non sarebbe stato molto originale. Almeno questo secondo schema, per FB, sarebbe stato piu' naturale vista l'idea di fondo che sta sotto, veramente innovativa: "rendo facile agli altri creare servizi".

La soluzione avrebbe quindi potuto essere "strumenti base gratis per creare servizi, strumenti avanzati a pagamento". Pensa cosa sarebbe un FB "open", molto piu' personalizzabile, in cui si paga solo per qualche giochino speciale o per qualche assistenza nello sviluppo ?

Ma e' anche vero, che su questa strada OpenSocial e' partito piu' correttamente, anche se in ritardo, e pur procedendo lentamente andra' sicuramente piu' lontano. Ne' FB puo' farci piu' nulla: OpenSocial ha mosso, scacco matto in 2 anni.

Sara' un caso che FB ha annunciato la sua strategia basata sull'advertising, in coincidenza col lancio di OpenSocial ?

In ogni caso, la strategia di FB dev'essere valutata con maggiore attenzione, come qui, visto che punta a trasformare gli utenti in marketer.

Dalle scelte di Facebook, traggo comunque due conferme:
1) il mondo e' cambiato, e nel web2.0 soprattutto, maggiore rispetto per gli utenti/prospect e' ormai legge
2) definire la strategia e' ormai un processo continuo

Forse la domanda corretta e': nel web2.0 chi e' il cliente pagante ? Se ci sono solo le aziende disposte a pagare per la loro visibilita', sempre di vendita di pubblicita' si tratta...

martedì 6 novembre 2007

Romania e Bulgaria in Europa: comunitari o extra ?

Per una discussione su Anobii ho raccolto queste informazioni:

1) la moratoria UE (non e' un'invenzione italiana) permette agli Stati membri di rimandare per qualche anno (2, ma fino a 7) la libera circolazione dei cittadini comunitari nei confini dell'Europa Unita (trattato di Shengen), relativamente ad alcuni stati nuovi membri, per ragioni di equilibrio sociale ed economico. Se applicata, si applicano "decreti flussi" come per gli extracomunitari

2) in virtu' del trattato di Shengen, i cittadini comunitari possono entrare in Italia, cosi' come in qualunque altro stato, senza alcun visto, essendo solo tenuti ad esibire la carta di identita' quando richiesta, per un soggiorno massimo di 3 mesi. Qualora si intende soggiornare per piu' di 3 mesi e' necessario fare domanda di una "carta di soggiorno" alla Questura indicando le ragioni (lavoro autonomo, studio, ...), che vale 5 anni, ma il mancato possesso non e' sanzionato

3) la moratoria e' stata adottata da diversi stati membri gia' prima del 2007 (anno in cui sono entrate Romania e Bulgaria), e tra questi dall'Italia, per iniziativa del governo Berlusconi

4) alla data del 1/1/2007, in cui Romania e Bulgaria sono entrate in Europa, il governo Prodi ha deciso per il mantenimento della moratoria, ma trasformandola da "piena" a derogabile: non si applica quindi a cittadini romeni e bulgari che richiedono la carta di soggiorno per motivi di lavoro "autonomo, dirigenziale e altamente qualificato, agricolo e turistico-alberghiero, domestico e di assistenza alla persona, edilizio e metalmeccanico, stagionale". Di fatto la moratoria e' stata abrogata.

http://www.aduc.it/dyn/immigrazione/arti.php?id=161157
http://www.volontariperlosviluppo.it/2007/2007_3/07_3_05.htm
http://www.amdplanet.it/forum/vie wtopic.php?t=30576
http://www.lomb.cgil.it/welfare/i mmigrazione/...

--- Romania e Bulgaria ---

non ho potuto fare a meno di chiedermi perche' oggi c'e' un'emergenza Rumeni e non un'emergenza Bulgari ?

Forse perche' i primi sono piu' dei secondi ? Non piu' di tanto:
Romania: 22 milioni ab. (99 ab/mq)
Bulgaria : 8 milioni ab. (69 ab/mq)

Forse perche' in Bulgaria stanno meglio che in Romania ? No, anzi.
Romania: crescita 7%, stipendio medio 270 Euro
Bulgaria: crescita 6,6%, stipendio medio 170 Euro

Forse perche' alla Romania sono stati destinati meno aiuti che alla Bulgaria, in vista dell'ingresso in Europa ? No, anzi.
Romania: 31 miliardi di euro (1400 euro/ab)
Bulgaria : 6,6 miliardi di euro (800 euro/ab)

L'unica differenza evidente, anzi sorprendente, e' che in Bulgaria esiste una grave emergenza demografica: nel 2003 la popolazione e' ritornata ai valori del 1961, dopo essere calata negli ultimi 20 anni con un rapidita' maggiore di quella con cui era cresciuta nei 20 anni precedenti.

Ci saranno anche altre differenze (maggiore o minore apertura delle politiche locali, efficienza del sistema giudiziario, presenza di organizzazioni criminali, ...), ma per la Bulgaria si parla molto di "invertire il flusso migratorio"

http://it.wikipedia.org/wiki/romania
http://it.wikipedia.org/wiki/bulgaria


lunedì 5 novembre 2007


Brain 2 Brain: Il cluster digitale delle idee e dell'innovazione culturale.

hai un cervello inquieto, sempre alla ricerca di stimoli e occasioni di confronto ? Iscriviti a questo ecosistema di conoscenza tutto italiano

: sul web
: su anobii
: su facebook

venerdì 2 novembre 2007

Economia 2.0: ne' scambio, ne' dono ?

Interessanti riflessioni di Vladi Finotto (First Draft) sul primo esempio italiano (pare) di Osteria senza oste.

Innanzi tutto il fatto: a Santo Stefano di Valdobbiandene (Treviso), patria del cartizze e del prosecco, si trova un eremo collinare dal quale si possono ammirare vigneti e dolci vallate dal verde riposante. Ma soprattutto e' attrezzato di tutto punto per appetitosi spuntini da consumarsi in solitaria o meglio con parenti, ospiti e amici o in gruppo. Si tratta di salumi, formaggi e vini, di produzione locale e pure di ottima qualita'. L’offerta per ciò che si e' gustato e' lasciata all'onesta' degli avventori, esiste solo un prezzo "consigliato" ma nessun controllo, e il denaro viene depositato in una cassetta sul tavolo della cucina. L'oste (i proprietari, i fratelli De Stefani) non c'e': passa fuori orario a rassettare e rimpinguare le scorte alimentari. E a raccogliere le offerte, che sembrano piu' che adeguate: i De Stefani e i viandanti (per lo piu' turisti) sono tutti soddisfatti, e il passaparola accresce il successo dell'iniziativa.

Mentre sarebbe naturale ricondurre questo esempio all'economia del dono, Vladi sostiene che cosi' non e', perche' il valore che viene corrisposto all'oste e' anche maggiore del valore di break even (quello a cui si pareggiano i costi). E cosi' risulta anche per i RadioHeads, a cui sono stati pagati mediamente 5 dollari contro un break even a 2 dollari circa. Quindi si tratta ancora di economia di mercato, dice Vladi.

Un'obiezione da parte mia.

L' "economia del dono" e' basata sul valore d’uso degli oggetti e delle azioni, come si legge su Wikipedia, cioe' il valore dal solo punto di vista di chi li utilizzera'. Ora questo e' esattamente quello che succede in quell'osteria: il valore d'uso corrisposto per il prosciutto risulta certamente legato alla fame, ma anche alla possibilita' di gustare insieme il prosciutto e il paesaggio, e la comodita' dell'osteria, e i sapori di una volta e la genuita' dei prodotti, e probabilmente anche alla possibilita' di vivere un'emozione insolita (l'offerta libera). E la stessa cosa avviene probabilmente per la musica dei RadioHeads. Non un valore contrattato col venditore, dunque, ma un valore spontaneamente riconosciuto dal consumatore, secondo solo i suoi criteri. Dunque non e' economia di mercato e assomiglia piu' all'economia del dono.

Quello che effettivamente non costituisce differenza tra l'economia del dono e l'economia di mercato e' che il valore del bene in oggetto e' comprensivo delle percezioni ed emozioni del consumatore (valori aggiunti). Questo puo' trarre in inganno. Anche nell'economia del dono il ritorno economico puo' essere vantaggioso, se l'utilizzatore riconosce il valore aggiunto.

D'altra parte l'economia del dono, proprio perche' non tiene conto di chi cede, richiede che sia praticata solo tra "pari" (donatori e beneficiati hanno le stesse disponibilita'), e in generale in presenza di una certa abbondanza del bene, come infatti succedeva nelle popolazioni dove era in uso (vedi il caso del Potlatch tra i nativi americani qualche secolo fa). Anzi nell'esperienza del dono, anche nella nostra cultura, il bene donato potrebbe essere superfluo e in alcuni casi distrutto (o riciclato). Infatti il ritorno economico non avviene in coincidenza del dono, ma semmai in un'occasione diversa in cui il ruolo di donatore viene assunto dall'altra parte.

L'economia del dono (ma pare che non ci sia un modello unico) e' quindi un'economia di "mantenimento" e di equa distribuzione in una societa' "chiusa". Non e' basata sul "bisogno" e sulla necessita' di rivolgersi ad altri per approvvigionarsi secondo le proprie necessita'. E' basata piuttosto su una serie di compensazioni che permettono il mantenimento di un equilibrio economico e sociale. Attraverso una sequenza di eventi (rituali tra i nativi americani, e piu' informali nei paesi occidentali), in cui i membri di una comunita' cedono a turno agli altri (e chi piu' ha piu' cede), ciascuno trova il modo di superare momenti di difficolta' e nessuno interpreta la propria abbondanza in modo egositico.


L'oste di Valdobbiadene e i RadioHeads non si sono rivolti a "pari", bensi' a persone sconosciute e potenzialmente abituate ad una diversa scala di valori. Ne' d'altra parte si sono accontentati di un dono futuro in cambio: l'oste ha indicato il prezzo che si attendeva che venisse pagato, e in ogni caso un pagamento e' avvenuto quasi sempre nell'occasione della consumazione. Non si tratta certo di un caso di distribuzione all'interno di una comunita' chiusa.

Tra l'altro non sono da confondere nemmeno con quei casi di contenuti e servizi offerti sul web con l'invito non vincolante a "donare". In quei casi avviene uno scambio, spesso nell'inconsapevolezza di chi riceve: chi dona ottiene traffico e visibilita' e anche dati, che poi convertira' in moneta attraverso forme di pubblicita', vendita di servizi avanzati, o elaborando/rivendendo i dati raccolti. Li' il valore corrisposto non e' certo a discrezione di chi riceve.

Tutti questi esempi, l'oste di Valdobbiadene (tutto offline) e i Radioheads (tutto web2.0) e i web services e il software opensource, pur differenti tra loro, hanno in comune il fatto di non essere ne' un esempio di "economia di mercato" ne' di "economia del dono". Sono qualcosa su cui e' utile riflettere con grande attenzione, e senza negare sbrigativamente il carattere innovativo, forse rivoluzionario.