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venerdì 2 ottobre 2015

Il coworking come strumento di creazione e sviluppo di ecosistemi

First coworking in San FranciscoLa storia dei coworking inizia nel 2005, a San Francisco, per iniziativa di Brad Neuberg, spinto sostanzialmente dalla voglia di libertà e indipendenza del lavoro da freelance, e contemporaneamente dal desiderio di quel supporto e senso di appartenenza che si hanno nel caso di lavoro in team. Questo tipo di soluzioni si è poi evoluto, assumendo svariati format, e rispondendo a molteplici esigenze non sempre coerenti. Quello che sicuramente un coworking non dovrebbe essere (e invece questa è la realtà in moltissimi casi), è un immobile adibito ad uffici in affitto.

La componente "social" del coworking, infatti, lo caratterizza in modo distintivo, e ne rappresenta un fattore critico di successo primario. La parola "social" riferisce qui al ripensamento delle modalità lavorative in atto da anni, sotto la spinta della diffusione di internet e dei social network in particolare, e più recentemente sulle implicazioni culturali, comportamentali e professionali, che queste tecnologie hanno indotto, su lavoratori freelance, impiegati in trasferta, e ora su intere organizzazioni. Il tema dunque, è quello delle "persone al centro" del lavoro, di promuovere l'espressione del loro potenziale, di facilitare le relazioni e sostenere il valore che si genera attraverso queste. Un simpatico video esplicativo qui.

11 Incredible Coworking StatisticsIl fenomeno sta raggiungendo un grande successo su scala mondiale: ormai anche in Italia se ne contano circa 300 (fonte MyCowo, dati dell'anno scorso), contro i 1200 in europa, e i 2500 nel mondo (fonte Coworking Europe). Sono quindi numerose anche le ricerche che tentano di catturarne le caratteristiche peculiari. Da queste risulta che le persone che frequentano i coworking, stanno proprio meglio, ricavano maggiore soddisfazione dal proprio lavoro, lo svolgono quindi con maggiore produttività, e ne ricavano perfino un maggiore profitto.

11 Incredible Coworking StatisticsQuesto si spiega in diversi modi. Con la maggiore enfasi sulla propria identità professionale, in un contesto che fornisce molte occasioni di confronto e sinergia, nella diversità, senza il clima di competizione e di esclusione, che si respira negli uffici aziendali, anche se openspace. Inoltre in questi contesti la "disponibilità alla condivisione" è ovviamente un principio fondamentale, che si traduce in maggiori possibilità di essere aiutati e sostenuti nelle difficoltà di ogni genere: dall'accesso a risorse comuni allo ricerca di soci e lo sviluppo di partnership, dal punto di appoggio in trasferta allo scambio di utili informazioni e buoni consigli. Altra possibile spiegazione è la massima libertà con cui il professionista può disporre della propria postazione di lavoro: non ci sono orari, non ci sono controlli. Perché non lavorare da casa, allora? Come già accennato, sono disponibili in questo caso facilities tipiche di un ufficio organizzato, e la possibilità di confronto con gli altri, che funge da stimolo all'impegno e alla concentrazione. E in ultimo, ma non per importanza, c'è il senso di community (ci dovrebbe essere), che si crea tra i membri di un cowo: li fidelizza e li motiva. Soprattutto se la gestione del cowo prevede opportune iniziative che rafforzano i valori in cui si riconosce la community, e moltiplicano le occasioni di incontro, facilitando l'inserimento dei nuovi iscritti, e favorendo la creazione di sinergie. Senza sconfinare d'altra parte, nelle forzature da villaggio turistico organizzato.

Coworking ManifestoSe l'organizzazione del coworking si ispira ai principi del "Coworking Manifesto", un documento pubblico sottoscritto da più di 1,800 referenti di iniziative di questo genere nel mondo, allora la "social mission" è ancora più chiara e precisa: favorire lo sviluppo di una community; promuovere la collaborazione; creare occasioni di apprendimento; predisporre un ambiente fertile per l'innovazione; puntare alla sostenibilità del cowo e dei suoi membri. Il riferimento per gli aderenti a questa filosofia è la Global Coworking UnConference: si tratta di un evento itinerante, e le prossime tappe sono Shanghai, Brasile e poi USA. Esiste anche un'analoga iniziativa tutta europea, la Coworking Europe Conference, che si svolge annualmente dal 2011, quest'anno si terrà a Milano, all'ex-Ansaldo, l'11-13 Novembre prossimi, e prevede la partecipazione di 400 tra imprenditori, professionisti, manager del settore pubblico, e operatori del terzo settore.

I 4 tatti essenziali dell'intrapreneurInfatti la capacità di questo format, di favorire benessere tra i professionisti, la loro interazione e collaborazione, e in ultimo la creatività e l'innovazione, ha reso il coworking uno strumento interessante anche all'interno delle imprese, della pubblica amministrazione e delle associazioni e iniziative no profit. Nelle aziende, la sua funzione principale consiste nel favorire una salutare destrutturazione del rapporto tra l'azienda e i dipendenti, e tra i dipendenti stessi. Per poi rendere eventualmente possibile una ristrutturazione libera e dal basso. Viene cioè inserito nei programmi che hanno come obiettivo una migrazione verso un'organizzazione aziendale più liquida ("social"), quindi connessa, flessibile e adattativa, e profondamente incline all'innovazione. Programmi che puntano a far emergere doti di "intrapreneur" nei propri dipendenti, essendo questo uno degli skill più richiesti al giorno d'oggi. Nel caso della P.A., la sua funzione è quella di favorire l'avvicinamento tra istituzioni e cittadini, e quindi la possibilità di ascoltare e comprendere meglio le loro istanze. Nelle imprese sociali, il principale vantaggio consiste nel coinvolgimento degli attori dell'ecosistema di riferimento, e nel sostegno ad iniziative trasversali.

Value Proposition DesignIn sintesi il coworking può essere una soluzione utile da considerare per il mobility management; nello sviluppo di nuova impresa; come tassello nella gestione dell'innovazione; come laboratorio per lo sviluppo di tecnologie digitali; come strumento di aiuto nella gestione di risorse umane; come componente di iniziative per la riqualificazione territoriale, sia in aree urbane che rurali; etc. D'altra parte, se le ragioni per avviare un coworking sono così numerose e ad alto potenziale, lo startup di una simile iniziativa non deve essere sottovalutato. A renderlo complesso sono proprio le componenti "people" e "purpose": ovvero l'identificazione e la trasmissione dei valori di riferimento, e le molteplici possibilità di trasferire valore ai partecipanti, per poi raggiungere anche un adeguato equilibrio economico. E' qundi raccomandato un approccio secondo il metodo "lean startup", da integrare in questo caso con il "value proposition design", una tecnica spiegata da Alex Osterwalder, nel suo ultimo libro omonimo (2014), e che completa il "lean startup" con elementi propri del "design thinking", la metodologia di riferimento per il service design. I fattori di successo sono legati al livello di adesione dei partecipanti al sistema di valori, siano essi di indirizzo che pratici; alla capacità di relazione con i partecipanti e gli stakeholder coinvolti; quindi alla comunicazione, e ad aspetti gestionali e di sviluppo di partnership. In definitiva critico è assicurare al coworking la funzione di catalizzatore per l'ecosistema in cui è inserito, attraverso una buona progettazione di un business model sostenibile, e la corretta orchestrazione di tutte le sue componenti.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, e su Medium.com, il 5/10/15]

domenica 2 agosto 2015

Progetto piattaforme sociali dunque sono.

Come stanno cambiando il mondo, l'economia e la società, le piattaforme tecnologiche che abilitano le connessioni e le relazioni tra le persone? Liberano più risorse dei problemi che sollevano? Il benessere percepito ci sorprende o ci delude? La nostra capacità di utilizzo matura in tempi più lunghi del tasso di innovazione a cui ci sottopongono?


Fra noi e “le cose come sono” c’è sempre un filtro creativo. I nostri organi di senso non usano percepire niente e riportano solo ciò che produce senso. Ciò ci rende “a un tempo creatore e creature”. (G. Bateson)  

Accettare. Subire. Essere parte del cambiamento.

Riprendo questo passaggio dall'ottimo libro di Luca De Biase, "Homo Pluralis: Esseri umani nell'era tecnologica", uscito a febbraio 2015, in cui cita Daniel Kahneman che ha vinto il Nobel nel 2002 per i suoi studi sulla moderna razionalità umana
"Le persone inconsapevoli – e tutte lo sono per la maggior parte del tempo – rischiano di assorbire il modo di pensare più adatto alle piattaforme, invece di adattare le piattaforme al loro modo di pensare. E dunque la razionalità e la consapevolezza possono combattere ad armi pari solo con il sostegno di altre piattaforme pensate per questo scopo."  
Delegare. Prorogare. Derogare il cambiamento.

Temo che ancora più diffusi - in base alla mia esperienza - siano i casi in cui le piattaforme vengono adottate come fossero dotate di magici poteri taumaturgici, e producessero i loro benefici per effetto spontaneo e naturale. Nessun patricolare sforzo richiesto: solo attendere il prodigio dell'autopoiesi. Mi diceva il referente di un cliente che qualche anno fa mi aveva chiesto di lavorare sullo sviluppo di una comunità di interesse di cui era promotore e facilitatore: "Vorremmo che la piattaforma funzionasse come facebook: vediamo che la gente ci va spontaneamente."

In altri casi sempre più frequenti nell'ultimo periodo, le piattaforme vengono adottate, dalle aziende come dalle istituzioni territoriali, con l'obiettivo nemmeno tanto nascosto, di "comunicare" un orientamento all'innovazione, prima ancora di averlo effettivamente sviluppato nella propria organizzazione, o di saperlo intercettare nella propria comunità di riferimento. Nulla di male, ben inteso, nella costruzione fin dall'inizio di un clima di consenso per un progetto impegnativo e dall'esito incerto, che aiuti a facilitare il cambiamento stesso. Anche se non tutti procedono in questo modo, come per esempio in Deutsche Bank

Sentirsi attori di una storia, mentre viene raccontata, è indubbiamente un canone tipico dei nostri tempi, amplifica il coinvolgimento, esalta la passione, e in qualche modo permette di focalizzare sugli obiettivi. Vale quindi certamente anche per l'adozione di piattaforme sociali da parte di comunità, tanto più che queste sono naturali amplificatori delle storie degli stessi membri. Un avvertimento, però: l'impegno richiesto oggi per comunicare sui social media, conquistare l'attenzione e attivare la partecipazione, è notevole: questo rende alto il rischio che l'impegno si concentri e si esaurisca a questo livello.

Coinvolgere nel processo di cambiamento per aumentarne il successo. 

D'altra parte, quando ci si trova a gestire progetti di profonda innovazione, è sempre maggiore l'attenzione riposta nel coinvolgimento del maggior numero di stakeholder appartenenti all'ecosistema di riferimento nello specifico contesto. Non solo è appropriato dichiarare per tempo le proprie 'intenzioni ("get out of the building" si raccomanda agli startupper riluttanti a condividere la propria idea d'impresa), ma si invita alla discussione e alla coprogettazione delle soluzioni che potranno realizzarla, ad iniziare dalle prime fasi di sviluppo. 

Non si tratta solo di verificare ipotesi, validare l'apprendimento
e approfittare di preziosi orientamenti e contributi alla progettazione. Il design thinking, che si sofferma in particolare sull'empatia necessaria tra progettisti e utilizzatori, applicato allo sviluppo delle piattaforme potrebbe essere così declinato:
introducendo una nuova piattaforma, dai la possibilità ai futuri utilizzatori di contribuire al suo sviluppo, e otterrai, oltre che una maggiore adesione ad un progetto che sentiranno proprio, anche un'evoluzione del loro modo di pensare, e quindi una maggiore naturale attitudine al cambiamento che porta. 
Un'opportunità da non perdere assolutamente.

Focalizzare sul senso del cambiamento e non sulla sua necessità. 

Non possiamo però perdere di vista il centro del problema. Il cambiamento indotto dalle piattaforme tecnologiche, non può essere più visto come un obiettivo a sé stante: lo è stato per troppo tempo. Le resistenze e le complessità che comporta, non sono il solo male da estirpare, come quando si vuole curare solo i sintomi e non la causa della malattia. Non bastano buone metodiche e tecniche per attivare le comunità, che facciano leva su un approccio endogeno (inside out), invece che esogeno (outside in), o su una felice combinazione dei due. La questione non è se si debba piegare la tecnologia all'utilizzatore, o viceversa, o giocare una partita senza vincitori e vinti. La lunghezza e l'esito incerto potrebbero affascinarci troppo, facendoci perdere di vista il senso stesso di questo gioco: ricondurre l'obiettivo del cambiamento al miglioramento del benessere delle persone, alla soluzione di concreti problemi sociali ed ambientali, all'aumento della qualità dell'ecosistema.

Le piattaforme sociali e tecnologiche, e il loro enorme potenziale in termini di capacità di connessione, di sviluppo di processi cognitivi, sono solo strumenti che ci aiutano ad essere e a pensare. Sono però ormai strumenti così sofisticati, che non evolviamo più grazie ad essi, o nonostante, ma insieme ad essi. Progetto e costruisco piattaforme sociali dunque sono, si potrebbe dire. La sfida quindi è migliorare il proprio modo di essere e di pensare, mantenendo saldo il senso ultimo di tale miglioramento, ed ottenendolo attraverso la costruzione partecipata degli strumenti che ci permetteranno di essere e di pensare. Aspettare il momento in cui li considereremo pronti per l'uso, per porci solo allora la domanda se siamo più felici dominandoli o sottomettendoci passivamente, potrebbe essere troppo tardi. Anzi, un'occasione persa.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 3/8/15, e su Medium.com, il 5/8/15]