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venerdì 2 ottobre 2015

Il coworking come strumento di creazione e sviluppo di ecosistemi

First coworking in San FranciscoLa storia dei coworking inizia nel 2005, a San Francisco, per iniziativa di Brad Neuberg, spinto sostanzialmente dalla voglia di libertà e indipendenza del lavoro da freelance, e contemporaneamente dal desiderio di quel supporto e senso di appartenenza che si hanno nel caso di lavoro in team. Questo tipo di soluzioni si è poi evoluto, assumendo svariati format, e rispondendo a molteplici esigenze non sempre coerenti. Quello che sicuramente un coworking non dovrebbe essere (e invece questa è la realtà in moltissimi casi), è un immobile adibito ad uffici in affitto.

La componente "social" del coworking, infatti, lo caratterizza in modo distintivo, e ne rappresenta un fattore critico di successo primario. La parola "social" riferisce qui al ripensamento delle modalità lavorative in atto da anni, sotto la spinta della diffusione di internet e dei social network in particolare, e più recentemente sulle implicazioni culturali, comportamentali e professionali, che queste tecnologie hanno indotto, su lavoratori freelance, impiegati in trasferta, e ora su intere organizzazioni. Il tema dunque, è quello delle "persone al centro" del lavoro, di promuovere l'espressione del loro potenziale, di facilitare le relazioni e sostenere il valore che si genera attraverso queste. Un simpatico video esplicativo qui.

11 Incredible Coworking StatisticsIl fenomeno sta raggiungendo un grande successo su scala mondiale: ormai anche in Italia se ne contano circa 300 (fonte MyCowo, dati dell'anno scorso), contro i 1200 in europa, e i 2500 nel mondo (fonte Coworking Europe). Sono quindi numerose anche le ricerche che tentano di catturarne le caratteristiche peculiari. Da queste risulta che le persone che frequentano i coworking, stanno proprio meglio, ricavano maggiore soddisfazione dal proprio lavoro, lo svolgono quindi con maggiore produttività, e ne ricavano perfino un maggiore profitto.

11 Incredible Coworking StatisticsQuesto si spiega in diversi modi. Con la maggiore enfasi sulla propria identità professionale, in un contesto che fornisce molte occasioni di confronto e sinergia, nella diversità, senza il clima di competizione e di esclusione, che si respira negli uffici aziendali, anche se openspace. Inoltre in questi contesti la "disponibilità alla condivisione" è ovviamente un principio fondamentale, che si traduce in maggiori possibilità di essere aiutati e sostenuti nelle difficoltà di ogni genere: dall'accesso a risorse comuni allo ricerca di soci e lo sviluppo di partnership, dal punto di appoggio in trasferta allo scambio di utili informazioni e buoni consigli. Altra possibile spiegazione è la massima libertà con cui il professionista può disporre della propria postazione di lavoro: non ci sono orari, non ci sono controlli. Perché non lavorare da casa, allora? Come già accennato, sono disponibili in questo caso facilities tipiche di un ufficio organizzato, e la possibilità di confronto con gli altri, che funge da stimolo all'impegno e alla concentrazione. E in ultimo, ma non per importanza, c'è il senso di community (ci dovrebbe essere), che si crea tra i membri di un cowo: li fidelizza e li motiva. Soprattutto se la gestione del cowo prevede opportune iniziative che rafforzano i valori in cui si riconosce la community, e moltiplicano le occasioni di incontro, facilitando l'inserimento dei nuovi iscritti, e favorendo la creazione di sinergie. Senza sconfinare d'altra parte, nelle forzature da villaggio turistico organizzato.

Coworking ManifestoSe l'organizzazione del coworking si ispira ai principi del "Coworking Manifesto", un documento pubblico sottoscritto da più di 1,800 referenti di iniziative di questo genere nel mondo, allora la "social mission" è ancora più chiara e precisa: favorire lo sviluppo di una community; promuovere la collaborazione; creare occasioni di apprendimento; predisporre un ambiente fertile per l'innovazione; puntare alla sostenibilità del cowo e dei suoi membri. Il riferimento per gli aderenti a questa filosofia è la Global Coworking UnConference: si tratta di un evento itinerante, e le prossime tappe sono Shanghai, Brasile e poi USA. Esiste anche un'analoga iniziativa tutta europea, la Coworking Europe Conference, che si svolge annualmente dal 2011, quest'anno si terrà a Milano, all'ex-Ansaldo, l'11-13 Novembre prossimi, e prevede la partecipazione di 400 tra imprenditori, professionisti, manager del settore pubblico, e operatori del terzo settore.

I 4 tatti essenziali dell'intrapreneurInfatti la capacità di questo format, di favorire benessere tra i professionisti, la loro interazione e collaborazione, e in ultimo la creatività e l'innovazione, ha reso il coworking uno strumento interessante anche all'interno delle imprese, della pubblica amministrazione e delle associazioni e iniziative no profit. Nelle aziende, la sua funzione principale consiste nel favorire una salutare destrutturazione del rapporto tra l'azienda e i dipendenti, e tra i dipendenti stessi. Per poi rendere eventualmente possibile una ristrutturazione libera e dal basso. Viene cioè inserito nei programmi che hanno come obiettivo una migrazione verso un'organizzazione aziendale più liquida ("social"), quindi connessa, flessibile e adattativa, e profondamente incline all'innovazione. Programmi che puntano a far emergere doti di "intrapreneur" nei propri dipendenti, essendo questo uno degli skill più richiesti al giorno d'oggi. Nel caso della P.A., la sua funzione è quella di favorire l'avvicinamento tra istituzioni e cittadini, e quindi la possibilità di ascoltare e comprendere meglio le loro istanze. Nelle imprese sociali, il principale vantaggio consiste nel coinvolgimento degli attori dell'ecosistema di riferimento, e nel sostegno ad iniziative trasversali.

Value Proposition DesignIn sintesi il coworking può essere una soluzione utile da considerare per il mobility management; nello sviluppo di nuova impresa; come tassello nella gestione dell'innovazione; come laboratorio per lo sviluppo di tecnologie digitali; come strumento di aiuto nella gestione di risorse umane; come componente di iniziative per la riqualificazione territoriale, sia in aree urbane che rurali; etc. D'altra parte, se le ragioni per avviare un coworking sono così numerose e ad alto potenziale, lo startup di una simile iniziativa non deve essere sottovalutato. A renderlo complesso sono proprio le componenti "people" e "purpose": ovvero l'identificazione e la trasmissione dei valori di riferimento, e le molteplici possibilità di trasferire valore ai partecipanti, per poi raggiungere anche un adeguato equilibrio economico. E' qundi raccomandato un approccio secondo il metodo "lean startup", da integrare in questo caso con il "value proposition design", una tecnica spiegata da Alex Osterwalder, nel suo ultimo libro omonimo (2014), e che completa il "lean startup" con elementi propri del "design thinking", la metodologia di riferimento per il service design. I fattori di successo sono legati al livello di adesione dei partecipanti al sistema di valori, siano essi di indirizzo che pratici; alla capacità di relazione con i partecipanti e gli stakeholder coinvolti; quindi alla comunicazione, e ad aspetti gestionali e di sviluppo di partnership. In definitiva critico è assicurare al coworking la funzione di catalizzatore per l'ecosistema in cui è inserito, attraverso una buona progettazione di un business model sostenibile, e la corretta orchestrazione di tutte le sue componenti.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, e su Medium.com, il 5/10/15]

venerdì 21 agosto 2015

Non fare quello che il cliente apprezza è la peggiore forma di spreco

L'attenzione al cliente, che da molto tempo caratterizza le migliori strategie, è come una asticella che viene alzata di tacca in tacca, man mano che il potere contrattuale si sposta sempre più dalla parte del cliente, ed economia e società civile ritornano quindi ad allinearsi. Infatti, non si tratta solo di "creare nuovi bisogni" nei clienti (e Kotler ricorda che i bisogni sono sempre preesistenti, solo in qualche caso latenti) o di irretirli con donipiaggerie, o di circondarli con messaggi riformattati e opportunità di contatto, o di "intrattenerli" e "farli vivere esperienze indimenticabili", o di "fidelizzarli".

Photo credit: Sartoria Silvio Zanella

Occorre un coinvolgimento più profondo, e anzi precedente il momento della vendita e del dopo-vendita, quando cioè il prodotto ancora non c'è. Per avere che questo coinvolgimento sia utile alla generazione di concrete opportunità di business, occorre poi saper costruire una fiducia e un comfort tali da indurre la disponibilità a confidare i reali bisogni e aspirazioni. Occorre empatia:  
 L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa sentire dentro[1] ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta, inoltre la capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un'altra persona. L'empatia è dunque un processo: essere con l'altro[2]. - Fonte: Wikipedia.
Design Thinking Boot CampApplicare l'empatia al business, a Standford lo chiamano Customer Focused Innovation, e si basa sui principi del design thinking. Se volete fare una settimana di corso full immersion a ottobre, potete iscrivervi ancora qui per soli 14,500 USD. In alternativa, Reuven Cohen ne ha raccolto in questo articolo anche un'inquadratura storica, oltre ai principi guida sottostanti, e qualche interessante testimonianza raccolta al Design Thinking Boot Camp: from Insights to Innovation, organizzato sempre dalla d.school di Standford, l'anno scorso. In particolare mi ha colpito quella di Evelyn Huang, che è Director of Design Thinking and Strategy a Capital One Labs: il suo compito è “reimmaginare il modo col quale 60 milioni di persone interagiscono col proprio denaro". Così dice:
 “We believe progress starts with a deep understanding of our customers. That’s why Design Thinking is our go-to method for building the products and experiences that our customers need. This human-centered methodology, coupled with a “fail fast” attitude, allows us to quickly identify, build, and test our way to success. We spend less time planning, more time doing, and, above all else, challenge ourselves to see the world through the eyes of our customers every step of the way,” 
Un altro video che spiega molto bene di cosa stiamo parlando, è questo preso dal blog di Tim Brown, CEO di Ideo:


 Empathy is at the heart of design. Without the understanding of what others see, feel, and experience, design is a pointless task. When communicated as it is in this video, empathy can be truly inspirational. What the Cleveland Clinic movie reveals is the true scale and complexity of the challenge of understanding a complex social situation in order to design a system that supports many and various needs” 
Design Thinking 6-step ProcessE' difficile ricondurre il design thinking ad uno schema metodologico unico, sia perché si applica in una grande varietà di contesti, sia perché l'approccio stesso è "divergente" ed esplorativo, e quindi adattativo, per sua stessa natura. I primi 2 step, dei 6 in cui si sviluppa il processo secondo la d-school di Stanford, sono indubbiamente i più critici, e dove questo approccio si caratterizza maggiormente. Riguardano la "comprensione" (Understand) e l'"osservazione" (Observe), e fanno riferimento alla "ispirazione" (Inspiration) nel framework generale di IDEO. Devono essere svolti soprattutto fuori dallo studio di progettazione, andando incontro ai reali destinatari, ai loro bisogni e alle loro aspirazioni: "oustide the box", non solo nel senso di pensiero laterale, ma proprio di ricerca dei vincoli al contorno che possono inficiare gli assunti teorici.

Design Thinking 5-step ProcessDunque in questi primi passi sono fondamentali la capacità di coinvolgimento e di ascolto (Engage and Listen), e anche l'uso di appropriate "interviste" (Interviews). Si usano per questo le tecniche indicate col "metodo Persona" (vi sconsiglio di cercarlo su google in italiano); si mettono a confronto diversi punti di vista (prima divergendo e poi convergendo); si pone cura nella scelta dei luoghi; infine più recentemente Alex Osterwalder e i suoi, hanno proposto il metodo "Value Proposition Design". Ma l'aspetto cruciale è legato alle persone, e, trovo che sia indubbiamente più chiaro il messaggio di Tim Burton, che ha voluto raccogliere i primi due step, in "Empatia" (Empathize).

Come si snocciola il processo dopo questa fase iniziale (Define Ideate Prototype Test), non è molto diverso da quanto si raccomanda nel metodo "lean startup" (Build Measure Learn) di Eric Ries, e in altri metodi non molto dissimili (come il PDCA). La sua rappresentazione lineare non deve ingannare, dal momento che nella fase di test è previsto di ciclare riprendendo dall'inizio (Iterate), anche se con una evidente minore enfasi. Nel design thinking c'è forse una maggiore attenzione alla visualizzazione; alla formulazione dei punti di vista evidenziando il loro carattere soggettivo; e in definitiva sulle persone e le loro interazioni (analisi prevalentemente qualitativa). D'altra parte anche i minimum viable products sono inizialmente schizzi, proof of concept e mockup, che vanno utilizati per ottenere la validazione delle persone potenziali clienti; però l'analisi dei feedback è fortemente supportata da metriche (analisi quantitativa). Il lean thinking permette di arrivare fino alla revisione dei processi interni di generazione e trasferimento del valore al cliente (processi per operare il business in aziende già avviate, e il processo di definizione del business model in startup o in presenza di innovazione radicale).

Lean Design ThinkingIl design thinking può quindi essere usato in combinazione con il lean thinking ("Lean Design Thinking), fornendo un adeguato supporto alla fase iniziale ("Empathize", appunto), su cui per altro è maggiormente focalizzato. In questo modo si assicura al metodo Lean Thinking di validare un'idea che è nata proprio dal confronto col destinatario stesso, da un utente prima che da un cliente. Questa sintesi è ben espressa dalle parole di Eric Ries: "Building something nobody wants is the ultimate form of waste". Mi sento di aggiustarle così in questo contesto:
 “Non fare quello che il cliente apprezza è la peggiore forma di spreco.”
[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 21/8/15, e su Medium.com, il 21/8/15]

lunedì 10 agosto 2015

Lean Thinking: fare il giusto con meno

Quando si parla di "Lean Thinking" gli equivoci si sprecano: proviamo a tagliarli, a beneficio di chi è alle prese con lo sviluppo del proprio business, la trasformazione della propria comunità di riferimento e della società civile in senso lato, o la gestione della propria azienda, piccola o grande che sia.



Il primo grande equivoco riguardo la "lean" è se si debba considerare un approccio strategico o tattico. La risposta che qui si argomenta, è che si tratta di un approccio che permette di espandere e consolidare le quote di mercato, quanto di ridurre i costi e aumentare la performance produttiva. Infatti permette di impostare una strategia di successo (in moltissimi contesti, non si pretende che sia vero per tutti), e di applicarla con azioni concrete nell'organizzazione, nei processi e nelle strutture operative aziendali.

Eiji Toyoda, giovane ingegnere della Toyota, insieme a Taichi Ono, un suo validissimo e indispensabile collaboratore, studiarono negli anni del dopo guerra, un metodo produttivo che avrebbe permesso all'azienda automobilistica di sfruttare le caratteristiche del mercato interno, cavalcare le opportunità della ricostruzione del giappone, crescere notevolmente ed arrivare nel giro di 20 anni ad insidiare i concorrenti americani in casa loro. Per questo retaggio storico (il modello di allora veniva indicato col nome "Toyota Production System"), ancora oggi si tende a derubricare la "lean" al capitolo "metodi di produzione". Infatti si fece innanzitutto riferimento a "lean production" o "lean manifacturing", proprio perché riferita a contesti fortemente produttivi.

Il primo equivoco, quindi, risale già a quell'epoca (eppure resiste ancora oggi), dal momento che gli stessi americani sottovalutarono per anni il modello giapponese, convinti innanzitutto di avere poco da imparare, forti della loro produzione industriale su larga scala, da un paese in via di (ritorno allo) sviluppo. All'inizio degli anni '50 Ford costruiva 8000 vetture al giorno, quando la Toyota ne aveva costruite 25000 negli ultimi 13 anni. Invece, dovendo fronteggiare un mercato interno molto più piccolo, di clienti con minore capacità di spesa, e potendo contare però su una qualità artigianale molto alta e diffusa, l'obiettivo dei giapponesi era:
 "produrre il prodotto giusto per il cliente, con meno risorse possibile"
C'erano già tutti gli elementi chiave che avrebbero fatto la fortuna di questo approccio nel corso di così tanti anni, fino ai giorni nostri. All'epoca fecero la fortuna della Toyota, che con il modello Corona, disegnato su misura sulle esigenze dell'americano medio, sbarcò negli USA con grande successo: 20000 unità vendute nel solo 1966. Motore potente, aria condizionata di serie, trasmissione automatica: aveva tutto quello che il cliente apprezzava - e non trovava nell'offerta dei produttori nazionali allo stesso prezzo - e niente di più.

Non si tratta dunque di un approccio per rendere semplicemente le attività produttive più efficienti, agendo quindi solo sui costi, in particolare tagliando gli "sprechi", insistendo con "continui miglioramenti". Ma è piuttosto una strategia di sviluppo del business ben precisa, e all'epoca innovativa, che pone al centro il cliente, al quale assegna il potere di decidere il valore" da trasferirgli: il valore per il quale è disposto a riconoscere un prezzo ed effettuare l'acquisto. Solo una volta identificato quel valore, e il "flusso" col quale viene generato in azienda, è possibile riconoscere gli sprechi (il non-valore) e tagliarli: si assicura così la massimizzazione del valore trasferito, e la diminuzione dei costi, quindi aumentando efficacia ed efficienza. Una strategia che permette quindi di identificare sfruttare ed espandere le opportunità di business, puntando alla sostenibilità nel tempo dei risultati economici.

Indubbiamente va attribuito a James P. Womack e Daniel T. Jones, il merito di aver studiato e spiegato i reali punti di forza di questo approccio, prima con "The machine that changed the world" (1991, rieditato nel 2007) - un titolo che la dice lunga sull'enorme potenziale che i due autori avevano riconosciuto nel metodo in oggetto - e poi con "Lean Thinking" (1996) - anche qui il titolo introduce un'espressione divenuta famosissima, e sottolinea come l'approccio giapponese meritasse di essere nobilitato quasi a livello di filosofia. Da questo momento ha inizio un'ampia diffusione nel mondo occidentale, e si è iniziato ad applicare l'approccio "lean" ad una moltitudine di campi applicativi, con opportuni ma non radicali adattamenti.

Detto questo, non può passare in secondo piano l'ampio e robusto corpo di pratiche e tecniche (tattica), che a partire dal lavoro di Taichi Ono, e poi nel corso degli anni, sono state messe a punto per applicare con successo l'approccio "lean" nell'operatività quotidiana. Dai kanban per regolare i flussi, ai poka yoke per ridurre gli errori; dal "one piece flow" al "pull flow"; dal just in time nella produzione agli hoshin kanri per dare supporto alle decisioni strategiche; dai kaizen event agli standup meeting; dal Sei Sigma per migliorare la qualità, al metodo delle 5S per razionalizzare gli spazi; e ancora molti altri. Proprio questa solidità architetturale sul piano metodologico, credo, continua ad alimentare ancora oggi lo stesso pesante equivoco che vuole la "lean" riferita soprattutto alla riduzione di costi e al recupero di efficienza.

Bisogna forse dare credito a Eric Ries, autore del libro "Lean Startup" (2011), che pur concentratosi sulle difficoltà di avvio delle startup, per primo e dopo molto tempo, ha riportato sotto la luce dei riflettori i principi fondanti della "lean" ricordando proprio come siano validi per indirizzare opportunamente l'identificazione di nuovi modelli di business sostenibili. Un approccio che ha conquistato subito un notevole successo globale, iniziando proprio dal settore delle startup, evidentemente poco interessato fino a quel memento, al lean management.

In sostanza ha permesso di rifocalizzare sul valore strategico della "lean": la priorità al cliente e al valore riconosciuto dal cliente; l'importanza dell'intero flusso, in questo caso l'intreccio delle relazioni tra le componenti del modello di business; l'approccio per piccoli miglioramenti ma frequenti del kaizen; il prezioso contributo delle risorse umane (ovvio nel caso delle startup) in termini di competenza e anche di umile verifica e analisi critica; l'indispensabile supporto delle metriche. Indubbiamente la "lean startup" deve ancora evolvere e maturare una architettura completa, proprio con l'introduzione di metodiche e tecniche operative (tattiche). Comunque viene già accreditato come "l'approccio che sta trasformando il modo con cui i nuovi prodotti sono sviluppati e lanciati sul mercato", dunque non solo nelle startup. Del resto non bisogna dimenticare le parole di Peter Drucker:
 "Per avere successo occorre riporre maggiore attenzione sul fare la cosa giusta, che nel fare le cose nel modo giusto"
Purtroppo ci sono ancora altri equivoci intorno alla "lean", ma applicando il metodo kaizen del miglioramento continuo, li elimineremo progressivamente nei prossimi post.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 10/8/15, e su Medium.com, il 10/8/15]

mercoledì 3 settembre 2014

Done Is Better Than Perfect. What's Better Than Done?

Eccellenza è una parola evidentemente abusata considerato quanto dovrebbe andare di pari passo con la scarsità. E' solo una questione da onomasiologi e semasiologi? solo diacronica o anche sincronica? Dal dizionario Garzanti, la definizione risulta essere: "1.qualità di persona o cosa che eccelle; superiorità assoluta, altissimo grado di perfezione." A parte che un tempo eccellenza e perfezione non venivano confuse, dal momento che la prima era sempre relativa e l'altra assoluta, viene da domandarsi se si intende la perfezione rispetto ad un'esigenza intima, una tensione spirituale verso l'assoluto, o in riferimento ad un contesto preciso?


Qui dovremmo farci aiutare da Aristotele, ripercorrere l'interpretazione cristiana di Tommaso d'Aquino, o quella morale di Kant... fino ad arrivare al primo '900 quando Bergson poneva l'uomo che vuole compiersi come essere creatore, di fronte a due strade: la tecnica e la mistica. Da allora il crescente dominio della tecnica e delle macchine ha svuotato il dibattito moderno occidentale sulla perfezione ("Il meglio può anche essere un nemico del bene, ma la perfezione è sicuramente un nemico mortale di entrambi", Zygmunt Bauman). E allora perché non ritornare al paradosso di Giulio Cesare Vanini (a cavallo del '600!): "La più grande perfezione è l'imperfezione".


Eppure la parola eccellenza riecheggia ogni volta che si parla di economia e società, dunque di mercati. "Il mercato globale vuole dall'Italia solo manufatti speciali e questo genera uno scompenso nel mondo de lavoro. Sono pronto a scommettere che nel giro di tre anni il nostro tasso di disoccupazione sarà inferiore al 10% perché torneremo a investire nei manufatti", dice Cucinelli. Ma i mercati chiedono racconti di esperti che hanno una storia alle spalle, vogliono essere istruiti su una materia che non conoscono ma dalla quale sono affascinati, vogliono potersi fidare e condividere (comprando) il processo creativo ed esecutivo. Riguarda il settore artigiano, in cui l'eccellenza scaturisce dalle mani dei maestri, oggi sempre più spesso celebrate come icone. Ma non riguarda solo il "fare" artigiano. Come scriveva Toni Shwartz su HBR nel 2010, in qualunque ambito è sempre una questione di passione, conoscenze, confronto con esperti e tenacia (e quindi esperienza). Sia che si tratti di uno scrittore, di uno sportivo, o di un responsabile organizzativo e dei suoi dipendenti, è sempre un continuo lavoro su se stessi (Malcom Gladwell dice almeno 10000 ore), che ha però intervallate aperture verso l'esterno, per apprendere e contestualizzare. Del resto le botteghe rinascimentali sono mai state davvero luoghi chiusi e immuni da influenze esterne? Non c'è eccellenza, quindi, se non al culmine di una storia, e di una storia raccontata e condivisa.

Ma questo spesso non basta: se parliamo di prodotti e servizi, il valore generato deve essere trasferito ad un cliente pagante. Occorre il problem/solution fit prima, e il product/market fit poi (vedi Steve Blank per una metodologia completa di customer development, e Ash Maurya per lo sviluppo che ne ha dato a livello procedurale). Per garantirsi questo occorre un preventivo confronto, fin dalle prime fasi di sviluppo del nuovo prodotto o della stessa idea di business, in cui testare e validare le proprie assunzioni, per poi eseguire prototipi sempre più vicini al prodotto finale, e a seguire, prodotti (mai) finali sempre più in grado di trasferire valore ad un cliente che lo percepisce. Si parla in questo caso di approccio "lean thinking", applicato soprattutto in contesti di forte innovazione, prima alle fasi di discovery e validation, e poi a quella di execution e growth, in un susseguirsi di iterazioni finalizzate al miglioramento continuo, senza sprechi, e il più possibile efficiente ed efficace.


Insomma l'eccellenza non può riguardare più soltanto il fare, ma inizialmente l'apprendere. Questa detronizzazione della perfezione è ben rappresentata dallo slogan "Done is better than perfect" e dal "Done Manifesto". Ma non deve trarre in inganno: il nuovo re non può essere il fare, tanto per fare, ovviamente. Forse "learned is better than (barely) done" potrebbe ribadire un'importante punto di vista: "Non esistono fallimenti ma solo apprendimento". Il mondo dei clienti è spesso tutto da conoscere, sia per la velocità con cui cambia, ma anche per il fatto che spesso questi vanno cercati in mercati sconosciuti, o sono comunque diversi da coloro che hanno comprato i prodotti nella stagione passata. La perfezione, se intesa come la ricerca confinata nella fase dell'esecuzione, non può quindi interporsi tra chi genera valore e colui al quale viene trasferito, e tradursi in un ostacolo nell'esplorazione del mondo che - augurabilmente - lo accoglierà. "Practice practice practice", ok, perché "practice makes perfect": ma la pratica non riguarda solo lo sviluppo del prodotto, bensì l'intero processo iterativo di identificazione del cliente e del suo problema, validazione della soluzione proposta, ed esecuzione del prodotto o servizio offerto. Scherzando, potremmo dire che l'atteggiamento devoto alla comprensione del cliente, e del processo nel quale verrà coinvolto, sarà in definitiva proprio ciò che rende perfetti ("If I practice love like I practice piano | I'll make others happy and better I'll be").

Non scherziamo sui sentimenti, però. Se il patto col cliente - io ti offro quello che risponde al tuo problema in modo eccellente - è così pregiudiziale per il successo, e l'obiettivo chiaro in testa fin dall'inizio è quello di "andare fuori dal laboratorio" per negoziare questo patto, allora non è probabilmente sufficiente validare assunzioni che nascono nel chiuso di quel laboratorio, dove l'eccellenza che si respira è soprattutto nel fare. Non sorprende se le imprese manifatturiere italiane di successo hanno percentuali di personalizzazione del proprio prodotto, pari a quelle delle botteghe artigiane. Carlo Molteni, un’icona del design italiano, ha dichiarato che tutte le sue cucine e ben l’80% dei suoi armadi sono fatti su misura, e che il futuro del suo settore è l’artigianato. Stefano Micelli - che grazie al suo libro “Futuro Artigiano” ha vinto il Compasso d’Oro ADI, il più importante premio di design del mondo - raccomanda che il fare sia considerato come parte del progettare, e quest'ultimo sempre più chiamato a organizzare relazioni, ovvero a dare forma, cioè, al rapporto tra processi produttivi ed esigenze del cliente. Questo vale soprattutto per imprese già avviate, e però in fase di importante riposizionamento. Si tratta di partire con il tavolo sgombro (se fossero startup, diremmo col canvas bianco): di partire direttamente dall'esterno del laboratorio, e non basta uscirne presto (“outside the box” thinking). Si deve partire dal dialogo empatico con coloro che ancora clienti non sono, forse non potrebbero, e sicuramente non vanno guardati come tali. In questo senso l'empatia è nel cuore della progettazione, che in questo modo rivela un'etica fortemente centrata sull'uomo, senza arretrare nella capacità di governare la tecnologia e i suoi travolgenti contributi innovativi (Design Thinking, Tim Brown, HBR Press, 2008). la principale differenza tra lean thinking e design thinking è proprio qui: non dobbiamo limitarci a validare le nostre assunzioni, ma dobbiamo formularle dopo aver raccolto le istanze degli utenti, e realizzato opportunità che non sospettavamo.


Ormai la perfezione del prodotto è un lontano ricordo, ma l'eccellenza continua ad essere un tema cruciale. Abbiamo capito che l'obiettivo è eccellere in un processo la cui prima fase è soprattutto di apprendimento e validazione del patto col nostro cliente. Ma in alcuni casi per raggiungere l'eccellenza dobbiamo essere capaci di instaurare, all'inizio, una relazione empatica col nostro futuro utente: dobbiamo abdicare al compito di scrivere la prima parola di quel contratto. La nostra capacità di fare abilita la capacità di progettare (analizzare, testare, misurare, apprendere e rielaborare), ma deve consentire al cliente di esplicitare i suoi reali bisogni (Driving Corporate Innovation: Design Thinking vs. Customer Development, Steve Blank). Proviamo a metterla così: “empathized is better than (barely) done”.


[Questo articolo è anche pubblicato sul Linkedin Blog]