Qui dovremmo farci aiutare da Aristotele, ripercorrere l'interpretazione cristiana di Tommaso d'Aquino, o quella morale di Kant... fino ad arrivare al primo '900 quando Bergson poneva l'uomo che vuole compiersi come essere creatore, di fronte a due strade: la tecnica e la mistica. Da allora il crescente dominio della tecnica e delle macchine ha svuotato il dibattito moderno occidentale sulla perfezione ("Il meglio può anche essere un nemico del bene, ma la perfezione è sicuramente un nemico mortale di entrambi", Zygmunt Bauman). E allora perché non ritornare al paradosso di Giulio Cesare Vanini (a cavallo del '600!): "La più grande perfezione è l'imperfezione".
Eppure la parola eccellenza riecheggia ogni volta che si parla di economia e società, dunque di mercati. "Il mercato globale vuole dall'Italia solo manufatti speciali e questo genera uno scompenso nel mondo de lavoro. Sono pronto a scommettere che nel giro di tre anni il nostro tasso di disoccupazione sarà inferiore al 10% perché torneremo a investire nei manufatti", dice Cucinelli. Ma i mercati chiedono racconti di esperti che hanno una storia alle spalle, vogliono essere istruiti su una materia che non conoscono ma dalla quale sono affascinati, vogliono potersi fidare e condividere (comprando) il processo creativo ed esecutivo. Riguarda il settore artigiano, in cui l'eccellenza scaturisce dalle mani dei maestri, oggi sempre più spesso celebrate come icone. Ma non riguarda solo il "fare" artigiano. Come scriveva Toni Shwartz su HBR nel 2010, in qualunque ambito è sempre una questione di passione, conoscenze, confronto con esperti e tenacia (e quindi esperienza). Sia che si tratti di uno scrittore, di uno sportivo, o di un responsabile organizzativo e dei suoi dipendenti, è sempre un continuo lavoro su se stessi (Malcom Gladwell dice almeno 10000 ore), che ha però intervallate aperture verso l'esterno, per apprendere e contestualizzare. Del resto le botteghe rinascimentali sono mai state davvero luoghi chiusi e immuni da influenze esterne? Non c'è eccellenza, quindi, se non al culmine di una storia, e di una storia raccontata e condivisa.
Ma questo spesso non basta: se parliamo di prodotti e servizi, il valore generato deve essere trasferito ad un cliente pagante. Occorre il problem/solution fit prima, e il product/market fit poi (vedi Steve Blank per una metodologia completa di customer development, e Ash Maurya per lo sviluppo che ne ha dato a livello procedurale). Per garantirsi questo occorre un preventivo confronto, fin dalle prime fasi di sviluppo del nuovo prodotto o della stessa idea di business, in cui testare e validare le proprie assunzioni, per poi eseguire prototipi sempre più vicini al prodotto finale, e a seguire, prodotti (mai) finali sempre più in grado di trasferire valore ad un cliente che lo percepisce. Si parla in questo caso di approccio "lean thinking", applicato soprattutto in contesti di forte innovazione, prima alle fasi di discovery e validation, e poi a quella di execution e growth, in un susseguirsi di iterazioni finalizzate al miglioramento continuo, senza sprechi, e il più possibile efficiente ed efficace.
Non scherziamo sui sentimenti, però. Se il patto col cliente - io ti offro quello che risponde al tuo problema in modo eccellente - è così pregiudiziale per il successo, e l'obiettivo chiaro in testa fin dall'inizio è quello di "andare fuori dal laboratorio" per negoziare questo patto, allora non è probabilmente sufficiente validare assunzioni che nascono nel chiuso di quel laboratorio, dove l'eccellenza che si respira è soprattutto nel fare. Non sorprende se le imprese manifatturiere italiane di successo hanno percentuali di personalizzazione del proprio prodotto, pari a quelle delle botteghe artigiane. Carlo Molteni, un’icona del design italiano, ha dichiarato che tutte le sue cucine e ben l’80% dei suoi armadi sono fatti su misura, e che il futuro del suo settore è l’artigianato. Stefano Micelli - che grazie al suo libro “Futuro Artigiano” ha vinto il Compasso d’Oro ADI, il più importante premio di design del mondo - raccomanda che il fare sia considerato come parte del progettare, e quest'ultimo sempre più chiamato a organizzare relazioni, ovvero a dare forma, cioè, al rapporto tra processi produttivi ed esigenze del cliente. Questo vale soprattutto per imprese già avviate, e però in fase di importante riposizionamento. Si tratta di partire con il tavolo sgombro (se fossero startup, diremmo col canvas bianco): di partire direttamente dall'esterno del laboratorio, e non basta uscirne presto (“outside the box” thinking). Si deve partire dal dialogo empatico con coloro che ancora clienti non sono, forse non potrebbero, e sicuramente non vanno guardati come tali. In questo senso l'empatia è nel cuore della progettazione, che in questo modo rivela un'etica fortemente centrata sull'uomo, senza arretrare nella capacità di governare la tecnologia e i suoi travolgenti contributi innovativi (Design Thinking, Tim Brown, HBR Press, 2008). la principale differenza tra lean thinking e design thinking è proprio qui: non dobbiamo limitarci a validare le nostre assunzioni, ma dobbiamo formularle dopo aver raccolto le istanze degli utenti, e realizzato opportunità che non sospettavamo.
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