mercoledì 14 marzo 2012

Il “social” come cura disintossicante per il “business”.

[Questo articolo è stato pubblicato nella rubrica "Le aziende invisibili", su Nòva (ilsole24ore.com), il 13/3/2012, per gentile invito di Marco Minghetti]

La felice espressione “i mercati sono conversazioni”, che è la prima delle 95 tesi del Cluetrain Manifesto del 1999, aveva gia' riportato in primo piano la necessita' da parte delle aziende di approcciare i propri clienti, e il proprio ecosistema di riferimento, in modo paritario, trasparente e consensuale. La Rete liberamente partecipata (in particolare i social network e i media sociali) avrebbe portato al centro le persone, dando loro la possibilità' di comunicare a proprio piacimento, ed informarsi e confrontarsi senza limitazioni di sorta, e perfino di amplificare collettivamente i processi creativi e conoscitivi, rivelando così il potenziale illimitato delle libere conversazioni. In questo modo, d'altra parte, il baricentro del comando e controllo viene spostato dalle sale di riunioni, ai luoghi (virtuali) in cui avviene la conversazione: qualunque stakeholder per l'azienda (i clienti diretti, i beneficiari, i partner, le istituzioni, gli enti normatori, i finanziatori...) ha sempre maggiori possibilità di far sentire utilmente la propria voce, e di essere interpellato direttamente e velocemente, e dunque nutre l'aspettativa di essere effettivamente ascoltato con attenzione.

In quell'illuminato manifesto, però, questa rivoluzione “social” non veniva annunciata limitatamente alle sole relazioni esterne all'azienda, e infatti alla tesi n. 42 si legge:
Come per i mercati in rete, le persone si parlano direttamente anche dentro l’azienda – e non proprio di regole e regolamenti, comunicazioni della direzione, profitti e perdite.
Nel 2006 poi, a sottolineare anche per le aziende il potenziale delle reti aperte, così centrate sulle persone, ci ha pensato Andrew McAfee, ricercatore al Center for Digital Business della MIT Sloan School of Management e precedentemente professore alla Harvard Business School, col famoso articolo "Enterprise 2.0: The Dawn of Emergent Collaboration", coniando così il termine largamente adottato negli anni successivi: "Enterprise 2.0". McAfee raccomanda di introdurre in azienda piattaforme e strumenti "sociali" (wiki, blog, bacheche di gruppo, social network) in modo da costituire intranet di tipo 2.0, capaci quindi di trasportare nel contesto business il grande potenziale delle reti aperte, testimoniato dalla Rete. La prospettiva non è dunque solo quella di fronteggiare un cambiamento minaccioso proveniente dall'esterno, ma di liberare l'organizzazione reale che rappresenta in azienda la componente piu' viva ed efficace, non per nulla una rete essa stessa, e finora compressa se non repressa. 

In realtà una fase di ripensamento del management era gia' in corso, anche in Italia, e per questo è utile ricordare il Convivium dell'Humanistic Management, il cui manifesto è stato pubblicato nel 2004 da Marco Minghetti, col libro “Le nuove frontiere della cultura d'impresa. Manifesto dello humanistic management" (Etas, 2004). Minghetti scriveva:
Ad ogni modo, i ripetuti fallimenti delle interpretazioni dell’azienda come macchina o come sistema perfetto hanno progressivamente lasciato spazio all’accettazione dell’imperfetto, dell’inconsueto, del non predeterminabile. Le vecchie metafore dell’organizzazione vengono sostituite da immagini provenienti da mondi ludici e legati alla dimensione del tempo libero. Ciò accade perché si afferma finalmente la consapevolezza che nel lavoro sono necessarie quelle attitudini creative che fino ad oggi sono sempre state confinate alla dimensione privata e considerate in antitesi con il concetto di professionalità. Decadono i metodi e le suddivisioni tradizionali dell’azienda e si avverte sempre di più la necessità di sperimentare approcci non verticali, orizzontali, bensì multidirezionali e flessibili.
La frattura da comporre tra “social” e “business”

Solo più recentemente, però, la rapida diffusione dei social network e dei nuovi media “sociali” ha raggiunto livelli tali da rendere la profezia del Cluetrain Manifesto realtà, e l'adozione del paradigma 2.0 da parte delle aziende, non solo prevedibile ed opportuna, ma necessaria e urgente. Necessaria perché la possibilità di comunicare con libertà, informarsi liberamente e collaborare in modo fluido ed efficace, che é oggi possibile a tutti nella società civile, crea un livello di aspettativa elevato per le stesse persone che vestono poi i panni dell'impiegato in azienda, dove invece resistono modelli collaborativi ancora fondati sostanzialmente sul comando e controllo, se non proprio sulla opacità e il conflitto. Urgente perché, da un punto di vista dell'evoluzione della tecnologia, stiamo infatti parlando di una finestra temporale che a fatica raggiunge i 10 anni, ma nel nostro paese il fenomeno si concentra ed esplode negli ultimi 3 anni circa. Basterà ricordare che il più frequentato e dunque il più importante social network, Facebook, stando all'osservatorio gestito da Vicenzo Cosenza, contava meno di un milione di utenti italiani ancora a metà 2008, e più di 20 a fine 2011.

L'adozione del paradigma 2.0 in azienda rimane soprattutto un'opportunità. Riscoprirsi organismi sociali inseriti in un contesto sociale, di cui si recupera piena consapevolezza, rappresenta per le aziende l'occasione di ritrovare un allineamento col proprio mercato, perduto o pericolosamente vacillante, ed un ruolo sociale più armonico e meno conflittuale con gli stakeholder coinvolti, a beneficio del proprio ecosistema di riferimento. Perfino Michael Porter, un'economista ritenuto un'autorità in materia di strategia e competitività di aziende e nazioni, ha pubblicato l'articolo "Creating Shared Value" (HBR, gennaio 2011), non il primo della serie, e già molto citato, in cui ha insistito perché la Corporate Social Responsibility e la creazione di “valore condiviso” siano ritenute un'opportunità per le aziende, e non solo una responsabilità. In questo modo infatti non solo adempiono ad un imperativo morale, e contribuiscono concretamente alla soluzione di problemi sociali ambientali e di equità nel commercio, ma anche acquisiscono un posizionamento migliore in termini di consenso al proprio brand e di interesse conquistato dai propri prodotti; migliorano la propria performance e quella di tutta la catena del valore; contribuiscono al benessere della comunità e del territorio in cui operano.

Per questo motivo siamo di fronte ad un gap tra il mondo Social e il mondo Business, che dovrà essere colmato, liberando da una parte tutto il potenziale del primo, in termini di creatività, capacità di innovazione, maggiore velocità di attivazione collaborazione e adattamento, a beneficio anche del secondo; e contemporaneamente facendo leva sulla capacità organizzativa, sulla pianificazione dei risultati, e sull'opportunità di monetizzare il valore generato, che sono caratteristiche del secondo. Un tema molto complesso che andremmo esplorando progressivamente in questa rubrica, “Mind The Social Business Gap”.

A che punto siamo (negli USA)

Fortunatamente, siamo ora ad un punto in cui è già possibile fare tesoro di una serie di sperimentazioni svolte dalle aziende più innovatrici, soprattutto all'estero ma anche in Italia, e consolidare una maggiore comprensione di come il paradigma 2.0 possa essere adottato in un contesto aziendale o interaziendale, come possano essere efficacemente introdotte le nuove dinamiche organizzative, e come possa essere gestita la rivoluzione culturale che ne consegue. A questo proposito, durante il secondo semestre 2011, una task force guidata proprio da McAfee, e promossa dalla prestigiosa Associazione AIIM, ha fatto il punto sulle concrete opportunità e sulle esperienze già maturate in questo ambito, producendo tre rapporti, focalizzati su altrettante aree applicative (i rapporti sono disponibili qui):
  • L'integrazione Marketing - Vendite: adottando un'infrastruttura di processi e tecnologie tali da permettere una più stretta sinergia;
  • Open Innovation: la spinta all'innovazione, utilizzando la tecnologia per permettere alle persone di essere più partecipative e quindi di contribuire in modo più efficace all'innovazione in azienda;
  • Enterprise Q&A: una nuova espressione per indicare la capacità fondamentale (anche) in azienda, di porre domande e ottenere risposte, intendendo così il raggiungimento di una conversazione fluida e trasparente, a vantaggio della produttività aziendale.
La ricerca è stata condotta tra i 65000 membri dell'associazione (400 risposte utili), e si basa quindi su aziende soprattutto nordamericane (56%) ed europee (38%), di dimensioni superiori alle 10 unità (fino a 100: 13%, fino a 1000: 26%), che rientrano nei vari settori con una buona distribuzione (principalmente ICT: 21%, Finance: 11%, PA: 16%, Consulenza e Formazione: 16%, ma comprendenti tra l'altro un 6% di Manifatturiero). Emergono subito con evidenza i significativi livelli di adozione, anche se finora in fase sperimentale, di soluzioni di Social Business (“applicazioni business di strumenti social”). Solo il 21% si è detto escluso, e di questi solo il 6% per esplicita policy contraria. Il 24% ha invece un utilizzo di applicazioni specifiche già in atto, il 38% stanno pianificando un utilizzo diffuso in azienda, e il 18% si dichiarano già attive. Il fattore chiave che ha motivato le aziende intervistate a farne un uso all'interno della propria organizzazione, è stato la necessità di localizzare e condividere le conoscenze e le competenze, superando divisioni dipartimentali e geografiche. In questo troviamo scontata conferma che la nuova generazione di strumenti 'social', inquadrati nella prospettiva aziendale, rispondono innanzitutto alle esigenze di knowledge management e people engagement, rese ancora piu' cruciali in mercati sempre più complessi, e dunque in un'economia basata su conoscenza e asset immateriali.

Il manager guida e non freno del cambiamento

D'altra parte, il fattore maggiormente critico riscontrato dalle aziende intervistate, è stata la cultura aziendale e la disponibilità del management di comprendere ed assecondare il cambio di paradigma sottinteso. Risulta che l'iniziativa è stata assunta principalmente dall'ufficio ICT, e secondariamente dal Marketing. Anche in questo dato, possiamo leggere un risultato ampiamente prevedibile: il nuovo approccio e i nuovi strumenti sono adottati più per naturale evoluzione, e con maggiore interesse da parte di chi ne ha un ruolo insostituibile di guida, presidiando la tecnologia, e di chi ne comprende i principali vantaggi, essendo chiamato ad indirizzare le politiche di go-to-market. Contemporaneamente il vertice aziendale è nella condizione di subire più che di beneficiare del cambiamento culturale, e dunque risulta più ostacolo che promotore. Come del resto previsto da Peter Druker in "Management Challenges for the 21st Century" (2001), il manager deve diventare fondamentalmente una guida del cambiamento, e non esso stesso la prima vittima.

Emerge quindi una criticità importante, visto il compito del management di decidere e sostenere una trasformazione che lo pone in difficoltà: anche se non potrà fermare il processo in atto, sarà causa di uno sviluppo non focalizzato, quindi rallentato e con benefici in parte compromessi, soprattutto nelle fase iniziale. Questo conferma l'importanza di iniziative come il Management 2.0 Challenge dell'estate scorsa, promosso da Gary Hamel, autore tra l'altro di “The Future of Management (HBSP, 2007) in collaborazione con Harvard Business Review e McKinsey, che attraverso il context del “M-Prize for Management Innovation”, ha raccolto 140 “stories” (casi significativi) e “hacks” (proposte circostanziate di metodi e tecniche collaudate). Secondo Hamel, attraverso le parole di Paolo De Caro:
“pur riconoscendo apertamente il valore dell’iniziativa, della creatività e della passione, molti manager si trovano di fronte a un dilemma imbarazzante: sono gestori per formazione e per temperamento. Vengono pagati per supervisionare, controllare e amministrare. Ma oggi le capacità umane più preziose sono proprio le meno gestibili. Gli strumenti del management possono obbligare le persone a essere obbedienti e diligenti, ma non possono renderle creative e coinvolte”.
E dunque, prosegue De Caro:
È l’ora di un management relazionale, un “freedom management” che non guardi a “libertà e responsabilità” come ad un trade-off di cui limitare i danni, ma come ad un equilibrio in cui le libertà di pensare, comunicare, partecipare, inventare, sbagliare, innovare, trovino dialogo nella responsabilità di un progetto ambizioso e sentito.
La responsabilità del manager si deve spostare quindi dalla determinazione e amministrazione dell'organizzazione ufficiale (approccio prescrittivo: è consentito ciò che è espressamente indicato), alla gestazione e cura dell'organizzazione reale (approccio proscrittivo: è consentito tutto tranne ciò che è espressamente indicato). Il successo del manager potrebbe essere identificato, in questa fase, nella capacità di far emergere l'organizzazione tacita: nel toglierle cioé la ragione di essere tacita.

Il manager tra risultato economico e vincoli organizzativi

Un'altra significativa indicazione, che riporta ancora alla questione del management, è la progressiva diminuzione dei casi in cui l'operazione di introduzione del modello 2.0 in azienda è stata sottoposta ad un preliminare e preciso esame del ROI: la motivazione fornita è che si tratta di un'investimento infrastrutturale (27%), i cui benefici sono in termini di maggiore circolazione, di più facile contestualizzazione, e di minori tempi di accesso delle informazioni. Questa è una risposta importante alla delicata questione dei costi, ancora più delicata in questa fase di crisi economica. Bisogna ricordare che i costi stessi di un progetto sperimentale sono estremamente contenuti rispetto a quelli necessari per l'acquisizione di piattaforme informatiche di ERP, BI, SRM o CRM. Infatti in questi casi, la soluzione stessa è configurata, popolata e gestita dagli stessi utenti, ed è possibile e necessario che queste attività non si aggiungano ma si inseriscano negli impegni quotidiani, a parziale riduzione del beneficio complessivo ottenuto in termini di efficienze ed efficacia.

Un'organizzazione più flessibile, autodeterminata, performante, ed attrezzata con gli strumenti sempre più di uso comune, non deve essere considerata dal management come un costo da contenere, ma esattamente come un obiettivo da perseguire, per permettere infatti al manager stesso di concentrarsi sugli aspetti strategici e sugli indicatori chiave dello stato di salute del business generato. In una congiuntura economica così critica e in rapida evoluzione, può essere rischioso affidarsi a parametri e modelli applicati ciecamente, ed è quindi cruciale per il manager riservarsi tempo e informazioni per un effettivo monitoraggio e tempestivi interventi correttivi.



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