venerdì 21 agosto 2015

Non fare quello che il cliente apprezza è la peggiore forma di spreco

L'attenzione al cliente, che da molto tempo caratterizza le migliori strategie, è come una asticella che viene alzata di tacca in tacca, man mano che il potere contrattuale si sposta sempre più dalla parte del cliente, ed economia e società civile ritornano quindi ad allinearsi. Infatti, non si tratta solo di "creare nuovi bisogni" nei clienti (e Kotler ricorda che i bisogni sono sempre preesistenti, solo in qualche caso latenti) o di irretirli con donipiaggerie, o di circondarli con messaggi riformattati e opportunità di contatto, o di "intrattenerli" e "farli vivere esperienze indimenticabili", o di "fidelizzarli".

Photo credit: Sartoria Silvio Zanella

Occorre un coinvolgimento più profondo, e anzi precedente il momento della vendita e del dopo-vendita, quando cioè il prodotto ancora non c'è. Per avere che questo coinvolgimento sia utile alla generazione di concrete opportunità di business, occorre poi saper costruire una fiducia e un comfort tali da indurre la disponibilità a confidare i reali bisogni e aspirazioni. Occorre empatia:  
 L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa sentire dentro[1] ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta, inoltre la capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un'altra persona. L'empatia è dunque un processo: essere con l'altro[2]. - Fonte: Wikipedia.
Design Thinking Boot CampApplicare l'empatia al business, a Standford lo chiamano Customer Focused Innovation, e si basa sui principi del design thinking. Se volete fare una settimana di corso full immersion a ottobre, potete iscrivervi ancora qui per soli 14,500 USD. In alternativa, Reuven Cohen ne ha raccolto in questo articolo anche un'inquadratura storica, oltre ai principi guida sottostanti, e qualche interessante testimonianza raccolta al Design Thinking Boot Camp: from Insights to Innovation, organizzato sempre dalla d.school di Standford, l'anno scorso. In particolare mi ha colpito quella di Evelyn Huang, che è Director of Design Thinking and Strategy a Capital One Labs: il suo compito è “reimmaginare il modo col quale 60 milioni di persone interagiscono col proprio denaro". Così dice:
 “We believe progress starts with a deep understanding of our customers. That’s why Design Thinking is our go-to method for building the products and experiences that our customers need. This human-centered methodology, coupled with a “fail fast” attitude, allows us to quickly identify, build, and test our way to success. We spend less time planning, more time doing, and, above all else, challenge ourselves to see the world through the eyes of our customers every step of the way,” 
Un altro video che spiega molto bene di cosa stiamo parlando, è questo preso dal blog di Tim Brown, CEO di Ideo:


 Empathy is at the heart of design. Without the understanding of what others see, feel, and experience, design is a pointless task. When communicated as it is in this video, empathy can be truly inspirational. What the Cleveland Clinic movie reveals is the true scale and complexity of the challenge of understanding a complex social situation in order to design a system that supports many and various needs” 
Design Thinking 6-step ProcessE' difficile ricondurre il design thinking ad uno schema metodologico unico, sia perché si applica in una grande varietà di contesti, sia perché l'approccio stesso è "divergente" ed esplorativo, e quindi adattativo, per sua stessa natura. I primi 2 step, dei 6 in cui si sviluppa il processo secondo la d-school di Stanford, sono indubbiamente i più critici, e dove questo approccio si caratterizza maggiormente. Riguardano la "comprensione" (Understand) e l'"osservazione" (Observe), e fanno riferimento alla "ispirazione" (Inspiration) nel framework generale di IDEO. Devono essere svolti soprattutto fuori dallo studio di progettazione, andando incontro ai reali destinatari, ai loro bisogni e alle loro aspirazioni: "oustide the box", non solo nel senso di pensiero laterale, ma proprio di ricerca dei vincoli al contorno che possono inficiare gli assunti teorici.

Design Thinking 5-step ProcessDunque in questi primi passi sono fondamentali la capacità di coinvolgimento e di ascolto (Engage and Listen), e anche l'uso di appropriate "interviste" (Interviews). Si usano per questo le tecniche indicate col "metodo Persona" (vi sconsiglio di cercarlo su google in italiano); si mettono a confronto diversi punti di vista (prima divergendo e poi convergendo); si pone cura nella scelta dei luoghi; infine più recentemente Alex Osterwalder e i suoi, hanno proposto il metodo "Value Proposition Design". Ma l'aspetto cruciale è legato alle persone, e, trovo che sia indubbiamente più chiaro il messaggio di Tim Burton, che ha voluto raccogliere i primi due step, in "Empatia" (Empathize).

Come si snocciola il processo dopo questa fase iniziale (Define Ideate Prototype Test), non è molto diverso da quanto si raccomanda nel metodo "lean startup" (Build Measure Learn) di Eric Ries, e in altri metodi non molto dissimili (come il PDCA). La sua rappresentazione lineare non deve ingannare, dal momento che nella fase di test è previsto di ciclare riprendendo dall'inizio (Iterate), anche se con una evidente minore enfasi. Nel design thinking c'è forse una maggiore attenzione alla visualizzazione; alla formulazione dei punti di vista evidenziando il loro carattere soggettivo; e in definitiva sulle persone e le loro interazioni (analisi prevalentemente qualitativa). D'altra parte anche i minimum viable products sono inizialmente schizzi, proof of concept e mockup, che vanno utilizati per ottenere la validazione delle persone potenziali clienti; però l'analisi dei feedback è fortemente supportata da metriche (analisi quantitativa). Il lean thinking permette di arrivare fino alla revisione dei processi interni di generazione e trasferimento del valore al cliente (processi per operare il business in aziende già avviate, e il processo di definizione del business model in startup o in presenza di innovazione radicale).

Lean Design ThinkingIl design thinking può quindi essere usato in combinazione con il lean thinking ("Lean Design Thinking), fornendo un adeguato supporto alla fase iniziale ("Empathize", appunto), su cui per altro è maggiormente focalizzato. In questo modo si assicura al metodo Lean Thinking di validare un'idea che è nata proprio dal confronto col destinatario stesso, da un utente prima che da un cliente. Questa sintesi è ben espressa dalle parole di Eric Ries: "Building something nobody wants is the ultimate form of waste". Mi sento di aggiustarle così in questo contesto:
 “Non fare quello che il cliente apprezza è la peggiore forma di spreco.”
[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 21/8/15, e su Medium.com, il 21/8/15]

lunedì 10 agosto 2015

Lean Thinking: fare il giusto con meno

Quando si parla di "Lean Thinking" gli equivoci si sprecano: proviamo a tagliarli, a beneficio di chi è alle prese con lo sviluppo del proprio business, la trasformazione della propria comunità di riferimento e della società civile in senso lato, o la gestione della propria azienda, piccola o grande che sia.



Il primo grande equivoco riguardo la "lean" è se si debba considerare un approccio strategico o tattico. La risposta che qui si argomenta, è che si tratta di un approccio che permette di espandere e consolidare le quote di mercato, quanto di ridurre i costi e aumentare la performance produttiva. Infatti permette di impostare una strategia di successo (in moltissimi contesti, non si pretende che sia vero per tutti), e di applicarla con azioni concrete nell'organizzazione, nei processi e nelle strutture operative aziendali.

Eiji Toyoda, giovane ingegnere della Toyota, insieme a Taichi Ono, un suo validissimo e indispensabile collaboratore, studiarono negli anni del dopo guerra, un metodo produttivo che avrebbe permesso all'azienda automobilistica di sfruttare le caratteristiche del mercato interno, cavalcare le opportunità della ricostruzione del giappone, crescere notevolmente ed arrivare nel giro di 20 anni ad insidiare i concorrenti americani in casa loro. Per questo retaggio storico (il modello di allora veniva indicato col nome "Toyota Production System"), ancora oggi si tende a derubricare la "lean" al capitolo "metodi di produzione". Infatti si fece innanzitutto riferimento a "lean production" o "lean manifacturing", proprio perché riferita a contesti fortemente produttivi.

Il primo equivoco, quindi, risale già a quell'epoca (eppure resiste ancora oggi), dal momento che gli stessi americani sottovalutarono per anni il modello giapponese, convinti innanzitutto di avere poco da imparare, forti della loro produzione industriale su larga scala, da un paese in via di (ritorno allo) sviluppo. All'inizio degli anni '50 Ford costruiva 8000 vetture al giorno, quando la Toyota ne aveva costruite 25000 negli ultimi 13 anni. Invece, dovendo fronteggiare un mercato interno molto più piccolo, di clienti con minore capacità di spesa, e potendo contare però su una qualità artigianale molto alta e diffusa, l'obiettivo dei giapponesi era:
 "produrre il prodotto giusto per il cliente, con meno risorse possibile"
C'erano già tutti gli elementi chiave che avrebbero fatto la fortuna di questo approccio nel corso di così tanti anni, fino ai giorni nostri. All'epoca fecero la fortuna della Toyota, che con il modello Corona, disegnato su misura sulle esigenze dell'americano medio, sbarcò negli USA con grande successo: 20000 unità vendute nel solo 1966. Motore potente, aria condizionata di serie, trasmissione automatica: aveva tutto quello che il cliente apprezzava - e non trovava nell'offerta dei produttori nazionali allo stesso prezzo - e niente di più.

Non si tratta dunque di un approccio per rendere semplicemente le attività produttive più efficienti, agendo quindi solo sui costi, in particolare tagliando gli "sprechi", insistendo con "continui miglioramenti". Ma è piuttosto una strategia di sviluppo del business ben precisa, e all'epoca innovativa, che pone al centro il cliente, al quale assegna il potere di decidere il valore" da trasferirgli: il valore per il quale è disposto a riconoscere un prezzo ed effettuare l'acquisto. Solo una volta identificato quel valore, e il "flusso" col quale viene generato in azienda, è possibile riconoscere gli sprechi (il non-valore) e tagliarli: si assicura così la massimizzazione del valore trasferito, e la diminuzione dei costi, quindi aumentando efficacia ed efficienza. Una strategia che permette quindi di identificare sfruttare ed espandere le opportunità di business, puntando alla sostenibilità nel tempo dei risultati economici.

Indubbiamente va attribuito a James P. Womack e Daniel T. Jones, il merito di aver studiato e spiegato i reali punti di forza di questo approccio, prima con "The machine that changed the world" (1991, rieditato nel 2007) - un titolo che la dice lunga sull'enorme potenziale che i due autori avevano riconosciuto nel metodo in oggetto - e poi con "Lean Thinking" (1996) - anche qui il titolo introduce un'espressione divenuta famosissima, e sottolinea come l'approccio giapponese meritasse di essere nobilitato quasi a livello di filosofia. Da questo momento ha inizio un'ampia diffusione nel mondo occidentale, e si è iniziato ad applicare l'approccio "lean" ad una moltitudine di campi applicativi, con opportuni ma non radicali adattamenti.

Detto questo, non può passare in secondo piano l'ampio e robusto corpo di pratiche e tecniche (tattica), che a partire dal lavoro di Taichi Ono, e poi nel corso degli anni, sono state messe a punto per applicare con successo l'approccio "lean" nell'operatività quotidiana. Dai kanban per regolare i flussi, ai poka yoke per ridurre gli errori; dal "one piece flow" al "pull flow"; dal just in time nella produzione agli hoshin kanri per dare supporto alle decisioni strategiche; dai kaizen event agli standup meeting; dal Sei Sigma per migliorare la qualità, al metodo delle 5S per razionalizzare gli spazi; e ancora molti altri. Proprio questa solidità architetturale sul piano metodologico, credo, continua ad alimentare ancora oggi lo stesso pesante equivoco che vuole la "lean" riferita soprattutto alla riduzione di costi e al recupero di efficienza.

Bisogna forse dare credito a Eric Ries, autore del libro "Lean Startup" (2011), che pur concentratosi sulle difficoltà di avvio delle startup, per primo e dopo molto tempo, ha riportato sotto la luce dei riflettori i principi fondanti della "lean" ricordando proprio come siano validi per indirizzare opportunamente l'identificazione di nuovi modelli di business sostenibili. Un approccio che ha conquistato subito un notevole successo globale, iniziando proprio dal settore delle startup, evidentemente poco interessato fino a quel memento, al lean management.

In sostanza ha permesso di rifocalizzare sul valore strategico della "lean": la priorità al cliente e al valore riconosciuto dal cliente; l'importanza dell'intero flusso, in questo caso l'intreccio delle relazioni tra le componenti del modello di business; l'approccio per piccoli miglioramenti ma frequenti del kaizen; il prezioso contributo delle risorse umane (ovvio nel caso delle startup) in termini di competenza e anche di umile verifica e analisi critica; l'indispensabile supporto delle metriche. Indubbiamente la "lean startup" deve ancora evolvere e maturare una architettura completa, proprio con l'introduzione di metodiche e tecniche operative (tattiche). Comunque viene già accreditato come "l'approccio che sta trasformando il modo con cui i nuovi prodotti sono sviluppati e lanciati sul mercato", dunque non solo nelle startup. Del resto non bisogna dimenticare le parole di Peter Drucker:
 "Per avere successo occorre riporre maggiore attenzione sul fare la cosa giusta, che nel fare le cose nel modo giusto"
Purtroppo ci sono ancora altri equivoci intorno alla "lean", ma applicando il metodo kaizen del miglioramento continuo, li elimineremo progressivamente nei prossimi post.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 10/8/15, e su Medium.com, il 10/8/15]

domenica 2 agosto 2015

Progetto piattaforme sociali dunque sono.

Come stanno cambiando il mondo, l'economia e la società, le piattaforme tecnologiche che abilitano le connessioni e le relazioni tra le persone? Liberano più risorse dei problemi che sollevano? Il benessere percepito ci sorprende o ci delude? La nostra capacità di utilizzo matura in tempi più lunghi del tasso di innovazione a cui ci sottopongono?


Fra noi e “le cose come sono” c’è sempre un filtro creativo. I nostri organi di senso non usano percepire niente e riportano solo ciò che produce senso. Ciò ci rende “a un tempo creatore e creature”. (G. Bateson)  

Accettare. Subire. Essere parte del cambiamento.

Riprendo questo passaggio dall'ottimo libro di Luca De Biase, "Homo Pluralis: Esseri umani nell'era tecnologica", uscito a febbraio 2015, in cui cita Daniel Kahneman che ha vinto il Nobel nel 2002 per i suoi studi sulla moderna razionalità umana
"Le persone inconsapevoli – e tutte lo sono per la maggior parte del tempo – rischiano di assorbire il modo di pensare più adatto alle piattaforme, invece di adattare le piattaforme al loro modo di pensare. E dunque la razionalità e la consapevolezza possono combattere ad armi pari solo con il sostegno di altre piattaforme pensate per questo scopo."  
Delegare. Prorogare. Derogare il cambiamento.

Temo che ancora più diffusi - in base alla mia esperienza - siano i casi in cui le piattaforme vengono adottate come fossero dotate di magici poteri taumaturgici, e producessero i loro benefici per effetto spontaneo e naturale. Nessun patricolare sforzo richiesto: solo attendere il prodigio dell'autopoiesi. Mi diceva il referente di un cliente che qualche anno fa mi aveva chiesto di lavorare sullo sviluppo di una comunità di interesse di cui era promotore e facilitatore: "Vorremmo che la piattaforma funzionasse come facebook: vediamo che la gente ci va spontaneamente."

In altri casi sempre più frequenti nell'ultimo periodo, le piattaforme vengono adottate, dalle aziende come dalle istituzioni territoriali, con l'obiettivo nemmeno tanto nascosto, di "comunicare" un orientamento all'innovazione, prima ancora di averlo effettivamente sviluppato nella propria organizzazione, o di saperlo intercettare nella propria comunità di riferimento. Nulla di male, ben inteso, nella costruzione fin dall'inizio di un clima di consenso per un progetto impegnativo e dall'esito incerto, che aiuti a facilitare il cambiamento stesso. Anche se non tutti procedono in questo modo, come per esempio in Deutsche Bank

Sentirsi attori di una storia, mentre viene raccontata, è indubbiamente un canone tipico dei nostri tempi, amplifica il coinvolgimento, esalta la passione, e in qualche modo permette di focalizzare sugli obiettivi. Vale quindi certamente anche per l'adozione di piattaforme sociali da parte di comunità, tanto più che queste sono naturali amplificatori delle storie degli stessi membri. Un avvertimento, però: l'impegno richiesto oggi per comunicare sui social media, conquistare l'attenzione e attivare la partecipazione, è notevole: questo rende alto il rischio che l'impegno si concentri e si esaurisca a questo livello.

Coinvolgere nel processo di cambiamento per aumentarne il successo. 

D'altra parte, quando ci si trova a gestire progetti di profonda innovazione, è sempre maggiore l'attenzione riposta nel coinvolgimento del maggior numero di stakeholder appartenenti all'ecosistema di riferimento nello specifico contesto. Non solo è appropriato dichiarare per tempo le proprie 'intenzioni ("get out of the building" si raccomanda agli startupper riluttanti a condividere la propria idea d'impresa), ma si invita alla discussione e alla coprogettazione delle soluzioni che potranno realizzarla, ad iniziare dalle prime fasi di sviluppo. 

Non si tratta solo di verificare ipotesi, validare l'apprendimento
e approfittare di preziosi orientamenti e contributi alla progettazione. Il design thinking, che si sofferma in particolare sull'empatia necessaria tra progettisti e utilizzatori, applicato allo sviluppo delle piattaforme potrebbe essere così declinato:
introducendo una nuova piattaforma, dai la possibilità ai futuri utilizzatori di contribuire al suo sviluppo, e otterrai, oltre che una maggiore adesione ad un progetto che sentiranno proprio, anche un'evoluzione del loro modo di pensare, e quindi una maggiore naturale attitudine al cambiamento che porta. 
Un'opportunità da non perdere assolutamente.

Focalizzare sul senso del cambiamento e non sulla sua necessità. 

Non possiamo però perdere di vista il centro del problema. Il cambiamento indotto dalle piattaforme tecnologiche, non può essere più visto come un obiettivo a sé stante: lo è stato per troppo tempo. Le resistenze e le complessità che comporta, non sono il solo male da estirpare, come quando si vuole curare solo i sintomi e non la causa della malattia. Non bastano buone metodiche e tecniche per attivare le comunità, che facciano leva su un approccio endogeno (inside out), invece che esogeno (outside in), o su una felice combinazione dei due. La questione non è se si debba piegare la tecnologia all'utilizzatore, o viceversa, o giocare una partita senza vincitori e vinti. La lunghezza e l'esito incerto potrebbero affascinarci troppo, facendoci perdere di vista il senso stesso di questo gioco: ricondurre l'obiettivo del cambiamento al miglioramento del benessere delle persone, alla soluzione di concreti problemi sociali ed ambientali, all'aumento della qualità dell'ecosistema.

Le piattaforme sociali e tecnologiche, e il loro enorme potenziale in termini di capacità di connessione, di sviluppo di processi cognitivi, sono solo strumenti che ci aiutano ad essere e a pensare. Sono però ormai strumenti così sofisticati, che non evolviamo più grazie ad essi, o nonostante, ma insieme ad essi. Progetto e costruisco piattaforme sociali dunque sono, si potrebbe dire. La sfida quindi è migliorare il proprio modo di essere e di pensare, mantenendo saldo il senso ultimo di tale miglioramento, ed ottenendolo attraverso la costruzione partecipata degli strumenti che ci permetteranno di essere e di pensare. Aspettare il momento in cui li considereremo pronti per l'uso, per porci solo allora la domanda se siamo più felici dominandoli o sottomettendoci passivamente, potrebbe essere troppo tardi. Anzi, un'occasione persa.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 3/8/15, e su Medium.com, il 5/8/15]