domenica 10 ottobre 2010

Se vuoi farti una vita, devi venire in citta’

L'idea di citta' e' l'idea stessa del vivere insieme e meglio: vantaggioso in termini pratici, ma non per questo meno piacevole. Invece assistiamo da tempo ad un progressivo svuotamento del significato di citta': vengono frequentate forzatamente, per vantaggi che non compensano sempre gli svantaggi, e dimostrano l'esaltazione del conflitto, e non della sinergia tra individualita' e socialita'. Gaber invitava ironicamente a "venire in citta'", in una canzone del 1969.

Un nuovo modello di citta' (come se ce ne potesse essere uno solo) oggi incontra esattamente questa sfida: concretizzare nuovamente nel locale quell'equilibrio tra economia e societa' che e' esploso su scala globale. La dimensione locale, territoriale, della citta' porta con se' peculiari caratteristiche, che la rendono candidata ideale nel dare queste risposte, dal momento che le tecnologie della mobilita' e quelle della comunicazione possono espandere i confini raggiungibili fisicamente e virtualmente del nostro habitat, ma contemporaneamente altri vincoli (il tempo, il denaro, la famiglia, la effettiva condivisione di vita quotidiana) mantengono il raggio del nostro campo base sostanzialmente coincidente con quello della citta' in cui viviamo.

La perdita di questo riferimento, la nomadizzazione da un lato e il risucchio in filiere sempre piu' delocalizzate, e' congeniale piu' alla componente esplorativa del nostro vivere sociale (non necessariamente collocata in una sola eta' dell'uomo), che alla componente fondativa e costruttiva. Tant'e' che l'enfatizzazione di questa perdita di riferimento sembra promossa da altre logiche e interessi, e non da quelli personali, tanto quanto la corrispondente esaltazione dell'individualita' che ugualmente impoverisce la persona, e indebolisce i suoi progetti, siano essi di natura sociale che economica.

D'altra parte la stessa dimensione territoriale rischia la deriva della chiusura verso gli altri territori, e del conflitto piu' o meno latente con le altre comunita': il rischio e' l'insorgenza di uno stato di guerra civile, anche se senza armi e spargimento di sangue, che non solo porta con se' abusi e dolore, ma limita proprio le contaminazioni e lo scambio culturale ed economico, dunque le risposte creative ai problemi e le opportunita' di sviluppo per la comunita' stessa.

Quindi la citta' ha ancora oggi il compito di incardinare un modello sociale ed economico, in cui non siano l'individuo ne' i "poteri forti", senza identita' e senza radici, a dettare le regole e a raccogliere i reali benefici: come entita' intermedia ha il compito di tutelare e valorizzare le diverse dimensioni (individuale, comunitaria, globale), ripartendo in modo non violento lo sforzo costruttivo e il ritorno in termini di ricchezza tangibile e intangibile.

Rispondendo a questa sfida, la citta' costituisce un paradigma scalabile: sostenuto da una rete sociale ed economica al proprio interno, e adatta ad inserirsi in una rete piu' ampia, allargata alla macro-regione, e via via fino alla dimensione globale, dove il passaggio non e' affatto subordinato ad una logica gerarchica. In questo modo la citta' puo' diventare il contesto fertile per un rinascimento sia culturale che economico, in cui l'attenzione all'uomo viene recuperata sfruttando la modernita' e non subendola.

Per queste ragioni, i modelli a rete aperta che internet ha permesso di valorizzare e espandere su scala mondiale, con un ritmo di crescita mai conosciuto nella storia dell'uomo, costituendo un raro esempio di sviluppo sostenibile (in una fase storica che sembra invece improntata alla precarieta'), sono un prezioso strumento che le citta' dovrebbero nuovamente fare proprio.

Da un lato, nell'ecosistema digitale, l'attivita' principale e' intangibile, e riguarda la comunicazione, lo scambio e sviluppo di conoscenza, le relazioni sociali; dall'altro, negli ecosistemi territoriali la complessita' dei problemi sul campo, e insieme le difficolta' di comunicazione e relazione imposte dalla dimensione e dai ritmi di vita, sembrano averci portato ad uno stallo, almeno percepito se non proprio reale.

La combinazione di questi ecosistemi puo' allora liberare capacita' collaborative e progettuali, e quindi favorire risposte concrete a problemi quotidiani, migliorando alla fine la qualita' della vita dei singoli, e della civitas che ne facesse da laboratorio. Questo processo e' effettivamente in atto, anche se richiede maggiore consapevolezza e l'acquisizione di nuove competenze, tanto che inziative di nuova generazione iniziano a concretizzarsi in tutti i campi (cultura, servizi sociali, formazione, mobilita', mercati...).

D'altra parte una ricerca dell'Universita' di Vienna del 2007 aveva identificato 70 citta' europee di media dimensione, e le aveva valutate sotto il profilo dell' economia, mobilita', ambiente, persone, stile di vita, e governance: le uniche 4 citta' italiane (Trento, Trieste, Ancona e Perugia) erano tutte intorno alla 50ma posizione. Si, possiamo farci una vita in citta', ma perche' sia felice per il maggior numero di persone, c'e' ancora tanto da fare.

[Contributo al bel Progetto Felicity di Stefano Meneghetti, di cui il comunicato stampa qui]

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