In questi giorni sono stati celebrati i funerali di un noto imprenditore veneto, Egidio Maschio, suicidatosi all'età di 71 anni con un colpo di fucile alle 6 di mattina, seduto sulla sua poltrona nell'ufficio presidenziale. Aveva fondato l'azienda all'età di 22 anni, in una cascina del padovano, portandola lungo tutta una vita, alle dimensioni attuali di multinazionale leggera, con 19 grandi centri produttivi, 16 in Italia e 3 all'estero in Romania, Cina e India. Le sue macchine agricole sono ora vendute in tutto il mondo (12 filiali commerciali), ad un ritmo che anche negli ultimi anni di crisi generalizzata, aveva portato il fatturato a raddoppiare, da 110 a 324 milioni (2013).
Difficile comprendere le ragioni di un tale gesto, a fronte di tanta energia e determinazione dimostrate in tanti anni, e testimoniate tra l'altro dagli slogan che l'imprenditore aveva fatto propri, e trasferiti nell'immaginario della propria azienda, dentro e fuori: "Insieme si vince", "Non mollare mai", "Quando si lavora bene, la terra ti ripaga sempre", per non parlare dell'Inno alla gioia della Maschio Gaspardo. Spostandosi sull'esame del caso aziendale, occorre ricordare l'esposizione col mondo bancario che aveva accompagnato l'ultima fase di crescita e l'ipotesi di una rinegoziazione del credito; l'accordo coi lavoratori, nello scorso novembre, che hanno rinunciato all’integrativo per permettere all’azienda di crescere ancora; la recente cessione della guida esecutiva del gruppo a due manager esterni.
Tra i commenti che sono già stati scritti, ne voglio riprendere un paio che danno letture differenti, ma complementari. Il primo è di Luca Marcolin, su Family Business Unit:
Il Ciclo di Vita delle Imprese di Adizes ce lo spiega molto bene. Dopo aver fondato l’impresa e aver superato gli scogli dell’infanzia in cui lotti per far sopravvivere la tua nuova creatura, si apre una stagione entusiasmante per tanti imprenditori.
E’ la stagione che Adizes chiama go-go. Non c’è una vera organizzazione e una vera delega, l’imprenditore ha molti collaboratori ma è al centro dell’organizzazione che ha una forma a stella, lui al centro e tutti intorno. Una grande flessibilità e velocità di decisione che gli permette di cogliere al volo le opportunità, che gli permette di risolvere problemi altrimenti irrisolvibili. Peccato che il problema diventi proprio la centralità del suo ruolo. Da una parte l’organizzazione senza il perno dell’imprenditore rischia di afflosciarsi come un soufflé mal lievitato, dall’altra l’imprenditore rischia di perdere il contatto con la realtà e non saper o voler lasciare.
Si apre un periodo critico, quello che vorrebbe un imprenditore capace di aprire alla delega e alla strutturazione, da un lato passando dal controllo diretto al controllo indiretto fatto di un sistema regolato, dall’altro da una imprenditorialità assoluta ma accentrata nel fondatore ad una imprenditorialità relativa ma distribuita nell’organizzazione.
Il focus di Adizes è l'azienda e il suo ciclo di vita, quindi la psicologia dell'imprenditore è riconosciuta ed analizzata come opportunità o vincolo per lo sviluppo dell'azienda: l'imprenditore è considerato come un fattore di sviluppo da valorizzare quando è positivo, e accompagnare all'uscita quando è giunto il suo tempo. Pur cercando di non banalizzare l'approccio di Adizes, credo che questa storia emblematica offra lo spunto per considerare anche un'altra dimensione, non solo il dramma personale o il ciclo di vita dell'azienda.
Per questo motivo, riprendo le parole di Andrea Arrigo Panato, su Ecopoly (ilsole24ore.com):
Per questo motivo, riprendo le parole di Andrea Arrigo Panato, su Ecopoly (ilsole24ore.com):
Quanti imprenditori improvvisamente non riescono più a capire cosa stia accadendo al mercato e alla propria azienda. Quanti imprenditori abituati ad essere padroni ma anche padri soffrono nel non poter più aiutare i propri dipendenti, nel non poter più svolgere quella vera e propria funzione sociale che spesso l’impresa, la fabbrica ha nei piccoli paesi della provincia italiana che con la fabbrica sono un tutt’uno.Tormento ben descritto da Francesco Jori sul Mattino di Padova nell’articolo “L’identità nordestina smarrita”: “Forse lui aveva perso ben altro, la mappa di se stesso, della propria identità, smarrita nel labirinto di un mondo del lavoro così altro rispetto a quello di cui era stato orgoglioso protagonista, in duri ma esaltanti decenni di fatica”.
Panato fa riferimento al "racconto" (epico) che prevale quando si parla di impresa, risultato economico e sviluppo della nostra società. Un racconto rivelatore, dice, dell'incapacità di riconoscere quello che siamo, e di vederci prospetticamente per quello che dovremmo essere.
Qui si fa riferimento anche al rapporto tra impresa (e imprenditore) e società, che a me interessa raccogliere. A questo proposito stiamo assistendo già da qualche anno ad una rapida trasformazione, anche (e in particolare) nel nostro territorio veneto. Una velocità ed una radicalità che non sempre lascia il tempo e la possibilità di adeguarsi, soprattutto agli imprenditori senior, soprattutto a quelli che sono stati assorbiti da un percorso di crescita importante della propria azienda.
La crescita economica risulta essere l'obiettivo prioritario, al quale condizionare il successo di grandi imprese (in senso aziendale e anche in senso lato), ma è capace da sola a dare senso alle vite che vi vengono dedicate? Indubbiamente sono ammirevoli, e fuori discussione, il coraggio dell'imprenditore di "crederghe" (crederci, in veneto), la perseveranza di investire in Italia e creare qui posti di lavoro, la passione per il proprio lavoro che ha permesso di raggiungere l'eccellenza mondiale. Ma il forte vento della globalizzazione, e le tempeste del mondo finanziario, sono capaci evidentemente di sradicare anche imprenditori che sono nati e cresciuti in un territorio agricolo, e che dalla terra hanno sempre ricavato la propria forza: "la terra ti ripaga sempre", forse lo stesso non si può dire delle banche e dei mercati internazionali.
Credo che questa storia debba essere archiviata con rispetto per l'uomo, e senza la pretesa di una spiegazione lucida e razionale che riassuma l'intera parabola dell'impresa, ma vorrei aggiungere qualche riflessione sull'equilibrio tra economia e società, e sulla necessità di avere un unico racconto collettivo, come è stato suggerito. Su questo piano abbiamo assistito a notevoli storture negli ultimi anni, ed è ora in atto un profondo ripensamento. Non si tratta solo di sperequazioni a livello territoriale e planetario, sulle quali da più parti si richiama ad una maggiore responsabilità sociale, dentro e fuori le aziende. Una responsabilità che la Maschio Gaspardo ha dimostrato sia per l'attenzione all'impatto ambientale, che nella gestione della propria filiera e del rapporto coi propri dipendenti. Assistiamo spesso, parlando in generale, alla revisione delle strategie aziendali sempre meno coraggiose e definite, conseguenza di un'incapacità degli attori economici di riconoscersi nel nuovo scenario, e di corrispondere con successo prevedibile ai propri mercati. Eppure in questo caso l'azienda era cresciuta molto (troppo? male?) proprio negli ultimi anni.
Sembra legittimo vederci un esempio del perduto contatto tra economia e finanza da un lato, e la società civile dall'altro, dal quale è logica conseguenza l'incapacità di dialogo e quindi di sviluppare una narrativa fluida e convincente. L'impresa (e l'imprenditore) avevano in questo caso un preciso ruolo sociale, ma prigioniero di una logica di investimenti e remunerazione del capitale investito, che ha privato il sostegno proprio nel momento di massimo impatto sociale. L'impatto benefico sul piano sociale avrebbe potuto proseguire, con energie liberate dall'operatività in azienda, e in maniera tale da riempire di senso gli ultimi anni di vita di qualunque protagonista abituato a grandi imprese.
Eppure ha prevalso (forse) l'annichilimento di un allontanamento forzato; la bocciatura finale di un percorso possibile solo grazie ad un grande talento e tenacia; la freddezza di una valutazione economica e finanziaria, proprio nel momento in cui quel capitolo andava chiudendosi naturalmente. Chiediamoci se non sia urgente riconsiderare con maggiore attenzione il ruolo sociale delle imprese, da parte di tutti gli stakeholder coinvolti, e dunque un maggiore equilibrio ed una più naturale continuità tra economia e società, sia a livello di singole imprese e mercati, che a livello più generale, ecosistemico. E quindi anche a livello personale.
La crescita economica risulta essere l'obiettivo prioritario, al quale condizionare il successo di grandi imprese (in senso aziendale e anche in senso lato), ma è capace da sola a dare senso alle vite che vi vengono dedicate? Indubbiamente sono ammirevoli, e fuori discussione, il coraggio dell'imprenditore di "crederghe" (crederci, in veneto), la perseveranza di investire in Italia e creare qui posti di lavoro, la passione per il proprio lavoro che ha permesso di raggiungere l'eccellenza mondiale. Ma il forte vento della globalizzazione, e le tempeste del mondo finanziario, sono capaci evidentemente di sradicare anche imprenditori che sono nati e cresciuti in un territorio agricolo, e che dalla terra hanno sempre ricavato la propria forza: "la terra ti ripaga sempre", forse lo stesso non si può dire delle banche e dei mercati internazionali.
Credo che questa storia debba essere archiviata con rispetto per l'uomo, e senza la pretesa di una spiegazione lucida e razionale che riassuma l'intera parabola dell'impresa, ma vorrei aggiungere qualche riflessione sull'equilibrio tra economia e società, e sulla necessità di avere un unico racconto collettivo, come è stato suggerito. Su questo piano abbiamo assistito a notevoli storture negli ultimi anni, ed è ora in atto un profondo ripensamento. Non si tratta solo di sperequazioni a livello territoriale e planetario, sulle quali da più parti si richiama ad una maggiore responsabilità sociale, dentro e fuori le aziende. Una responsabilità che la Maschio Gaspardo ha dimostrato sia per l'attenzione all'impatto ambientale, che nella gestione della propria filiera e del rapporto coi propri dipendenti. Assistiamo spesso, parlando in generale, alla revisione delle strategie aziendali sempre meno coraggiose e definite, conseguenza di un'incapacità degli attori economici di riconoscersi nel nuovo scenario, e di corrispondere con successo prevedibile ai propri mercati. Eppure in questo caso l'azienda era cresciuta molto (troppo? male?) proprio negli ultimi anni.
Sembra legittimo vederci un esempio del perduto contatto tra economia e finanza da un lato, e la società civile dall'altro, dal quale è logica conseguenza l'incapacità di dialogo e quindi di sviluppare una narrativa fluida e convincente. L'impresa (e l'imprenditore) avevano in questo caso un preciso ruolo sociale, ma prigioniero di una logica di investimenti e remunerazione del capitale investito, che ha privato il sostegno proprio nel momento di massimo impatto sociale. L'impatto benefico sul piano sociale avrebbe potuto proseguire, con energie liberate dall'operatività in azienda, e in maniera tale da riempire di senso gli ultimi anni di vita di qualunque protagonista abituato a grandi imprese.
Eppure ha prevalso (forse) l'annichilimento di un allontanamento forzato; la bocciatura finale di un percorso possibile solo grazie ad un grande talento e tenacia; la freddezza di una valutazione economica e finanziaria, proprio nel momento in cui quel capitolo andava chiudendosi naturalmente. Chiediamoci se non sia urgente riconsiderare con maggiore attenzione il ruolo sociale delle imprese, da parte di tutti gli stakeholder coinvolti, e dunque un maggiore equilibrio ed una più naturale continuità tra economia e società, sia a livello di singole imprese e mercati, che a livello più generale, ecosistemico. E quindi anche a livello personale.